Esattamente un secolo fa veniva pubblicato a Milano, da Ulrico Hoepli, uno dei più interessanti studi sulla nostra isola: “I nomi locali dell'Elba”. L'autore è Remigio Sabbadini (1850-1934), professore di letteratura latina del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere, l'attuale università di Milano. Il suo nome è soprattutto legato alla storia dell'umanesimo filologico, di cui è considerato il creatore (vedi Enciclopedia Treccani, ad vocem).
L'opera è un estratto dei “Rendiconti” (il volume 52, fascicoli 19-20; e il volume 53, fascicoli 2-4) delle adunanze tenute il 27 novembre e 4 dicembre 1919; e 29 gennaio e 12 febbraio 1920). Si tratta del primo (e finora unico) studio toponomastico completo sulla nostra isola.
Spunti toponomastici erano emersi qui e là in opere precedenti, ma solo come notazioni dei vari autori. Spesso neanche del tutto accurate. Molti nomi di località erano infatti spiegati con dicerie, senza alcuna base linguistica. Addirittura alcuni toponimi erano frutto di fantasia, originati soprattutto da fole propalate da un falsificatore settecentesco, passato alla cronaca come Celeteuso Goto, che per più di un secolo hanno inquinato la storiografia erudita elbana. A questo proposito proprio Sabbadini, nella sua opera, è il primo studioso a bollare senza mezzi termini come panzane le teorie del suddetto falsificatore.
Sabbadini aprì una strada culturale importante. Per quanto non tutte le ipotesi toponomastiche proposte siano corrette o condivisibili, il suo lavoro è stato per un secolo la base imprescindibile per ogni studio. Appare significativo che in questo lungo lasso di tempo nessuno si sia mai cimentato in un'opera analoga (anche solo per correggere e compendiare quella di Sabbadini), per complessità della materia e per la vastità di fonti documentarie da analizzare nella ricerca di toponimi oggi scomparsi. Gli studi più specifici prodotti nel frattempo sono due: uno, limitato all'Elba occidentale, è il “Signum” di Silvestre Ferruzzi (Isola d'Elba, 2010); l'altro, che comprende anche l'Elba, è la “Toponomastica della Toscana meridionale e dell'Arcipelago Toscano” di Silvio Pieri (Siena, 1969). Per il resto, altri interessanti contributi sono all'interno di opere di ampio respiro. Linguistico: Romualdo Cardarelli “Comunanza etnica degli elbani e dei corsi” (Livorno, 1934). Archeologico: Michelangelo Zecchini “Isola d'Elba Le origini” (Lucca, 2001). Di storia locale (limitatamente all'area laconese): R. Adamoli e D. Rigon “Meloa” (Pontedera, 2013). In ogni caso sotto tutti debitori in diversa misura a Sabbadini.
L'autore iniziava la sua ricerca con le seguenti parole: “Non storia, non linguistica si offre qui al lettore, ma una raccolta di materiali che possono servire agli storici e ai linguisti”. E fu profeta, poiché ancora oggi molti dei suoi spunti sono validi sotto diversi aspetti: non solo toponomastici, ma anche come testimonianza del quadro archeologico di alcuni siti elbani di quegli anni.
Ma anche la seconda considerazione, oggi scontata per quanto attiene le parlate marcianesi e campesi, era per l'epoca illuminante: “I linguisti fra l'altro vi spigoleranno le prove, se non mi illudo, che il toscano parlato all'Elba in un tempo anteriore al presente era molto affine al corso”.
Nel saggio introduttivo appare un'altra nota interessante. Sabbadini scrive una verità poco gradita agli elbani (non solo dell'epoca, peraltro, a giudicare dai molti scempi del secolo trascorso): “Dagli avanzi archeologici ben poco potei rilevare, perché gli Elbani, signori contadini e operai, han fatto di tutto per disperdere e cancellare i ricordi monumentali della loro isola: i signori col non sorvegliare i rinvenimenti occasionali che si operavano nei loro fondi e col regalare a questo e quello il meglio che veniva alla luce; i contadini e gli operai col rubare o sottrarre ciò che eventualmente cadeva sotto le loro mani per venderlo a qualche orefice incettatore”. Salvava solo Ulisse Foresi, “che della sua insigne collezione fece liberal dono al museo di Livorno”.
Terminano lo studio due postille: “Contatti dialettali tra l'Elba e la Corsica” e i “Suffissi”. Soprattutto la prima, per quanto stringata, è molto illuminante per i contatti di toponomastica e parlata tra le due isole. Aprendo la strada ai contributi successivi già citati di Cardarelli e Ferruzzi.
Il grosso dell'opera è ovviamente la raccolta di voci, in ordine alfabetico, dei toponimi. Sabbadini li desume consultando “mappe del catasto, dalla carta dell'Istituto topografico militare del 1881, dalle carte geografiche manoscritte dell'Archivio di Stato di Firenze, dai pochissimi e non antichi documenti conservati a Portoferraio, a Marciana, a Rio: tutto scrupolosamente e minutamente verificando sulla bocca degli Elbani e sui luoghi”.
Ne risulta una raccolta di 650 voci, ben al di sotto del numero reale. Tanto per dare un'idea: nel mio lavoro di ricerca, tra toponimi attualmente vivi e (soprattutto) decaduti, ho raccolto un numero circa 4 volte superiore. La parzialità della raccolta era nota all'autore: “Elencarli tutti non era né utile né opportuno. […] Io ho mirato in particolar modo all'interesse storico e linguistico, accogliendo solo pochi di quei nomi personali e soprannomi che offrissero singolarità di forma”.
Mario C. Ascari, in un articolo ripreso dallo Scoglio (“Nomenclatura di... Scoglio”, n. 17, 1988), definì l'opera di Sabbadini non solo “manchevole”, ma anche suscettibile di “varie critiche” per l'”interpretazione di vari toponimi”. Per quanto indubbiamente vero, ritengo che Sabbadini raggiunga un non disprezzabile risultato: da una mia personale statistica, risulta che sulle 650 voci raccolte, 328 appaiono corrette o sostanzialmente ipotizzabili, 162 errate o non condivisibili, mentre delle restanti, 156 sono quelle che l'autore riporta senza spiegazione (perché abbastanza chiare) e 4 quelle a cui non sa dare un'origine.
Anche Ascari fa una statistica sui toponimi di Sabbadini. Ne risulta che un terzo (32,7%) riporta alla morfologia dei luoghi, un 19% al mondo vegetale, un 9,4% alle attività umane (soprattutto agricoltura e pastorizia), il 7,1% al mondo animale, il 3,5% all'ambito religioso, il 3% all'attività mineraria e l'1,2% a termini marinareschi.
Sabbadini rileva solo due voci di origine greca, ormai palesemente accettate: il più antico nome dell'isola finora accertato (Aethalia) e quella dell'antico approdo di Portoferraio (Argos). Di tracce etrusche ne registra solo 4. Ma a parte l'oscuro Pizzenni, le altre tre (Cenno, Ginni e Verna) sono in realtà molto più recenti, al più di origine alto-medievale: i primi due fanno riferimento ai cenni (o cinni) di fumo, che in antico servivano come segnalazione tra postazioni di vigilanza costiera; il terzo è un termine antico che indica l'albero di ontano. Anche i diversi toponimi che l'autore fa risalire perentoriamente a una dominazione longobarda sull'isola vanno valutati con più attenzione. Il più interessante è senza dubbio Cafaio, che potrebbe in effetti riportare al termine “gahagi” (recinto). Ma sbaglia di grosso con molti altri, per esempio Tignitoio, toponimo molto più recente e assimilabile a “tenditoio”, ovvero un tipo di trappola usata dagli uccellatori.
Altri toponimi che l'autore, a mio avviso, interpreta male sono Adituccio (vicolo) e Agaciaccio (acacia), ma in realtà Aia di Duccio e Aia di Ciaccio (o nome simile); Alsano (nome romano), Alzi (alzare) e Arcielli (addirittura larici, alberi assenti sull'isola), più verosimilmente tutti riferibili ad alzu, termine antico che indica l'ontano; Bombagliere (nientemeno che bambagiere!), in realtà postazione militare di vigilanza costiera; Brumaio (dal nome di un verme!), in realtà da prunaio; Bucine, interpretata correttamente come rete, ma non da pesca bensì da uccellatori; Fetovaia, associato assurdamente al faggio, albero assente sull'isola e non certo marino; Francesche, associato alle mele anziché al più corretto francese; Margidore (marcitoio della canapa o del lino), in realtà dal latino marcidus, area paludosa; Parata (riparo), in realtà barata, ovvero frana.
È curioso anche come a toponimi evidenti, Fangati e Bardinella, Sabbadini dia spiegazioni assurde: il primo, che richiama evidentemente un luogo fangoso, lo fa originare ancora da faggio; il secondo, ovvero Val di Nella, è riportato a un curioso barda sella. Morcone lo fa derivare da muro, ma molto probabilmente la spiegazione è la stessa dell'omonimo paese molisano: ovvero dai termini latini mucro o murex, cioè punta, facendo quindi riferimento al grosso promontorio che caratterizza la località.
Va però notato che su un toponimo la sua ipotesi è ancora validissima, nonostante negli anni sia stata frettolosamente rigettata: Profico, che fa ragionevolmente risalire a caprifico, mentre oggi viene associato per assonanza a prefiche, solo perché nella zona si trovava una necropoli romana.
Tuttavia, nonostante gli errori che una materia così complessa può generare, il suo rimane un ottimo lavoro, che sarebbe una buona idea ripubblicare, corredato da un buon apparato di note critiche.
Andrea Galassi