Quale origine plausibile può avere il nome Capoliveri? È davvero Caput Liberum? Poteva essere in epoca romana un luogo dove acquistare la libertà? O il posto prediletto da Bacco?
Il nostro viaggio nel mondo dei toponimi elbani oggi parte da qui, provando ad analizzare su basi storiche l'origine del nome di uno dei borghi più antichi dell'isola.
L'idea di Caput Liberum, (“che la gente interpreta cervelloticamente in vario modo”, scriveva Remigio Sabbadini, nel suo “I nomi locali dell'Elba”, Milano, 1920) come altura di libertà, luogo in cui gli antichi romani destinavano i condannati a un confino nel quale si poteva vivere senza troppi vincoli, è una teoria che ha sempre fatto presa sui fieri capoliveresi. Ma non ha alcuna base storica. Anzi si tratta dell'ultimo falso duro a morire del cosiddetto Celeteuso Goto, l'ormai smascherato propalatore di fole settecentesco, autore di una pseudostoria dell'isola.
A proporre la forma Caput Liberi, vetta di Libero, è lo stesso Sabbadini. Lo studioso però non era tipo da cadere in fantasticherie, e infatti il Libero ipotizzato è un nome romano generico. Sarà la vulgata popolare a tirare in ballo il Libero più famoso, il dio Bacco, consacrando il paese, dalla millenaria tradizione vitivinicola, a un pezzo da novanta dell'olimpo romano.
Molto più plausibile è l'ipotesi di Silvestre Ferruzzi (“Signum”, Isola d'Elba, 2010, pag. 98, nota 1): “Personalmente ritengo che Capite Libero (questa la dizione nel Duecento) derivi dall'orografia stessa del promontorio (estremità sud-orientale dell'Elba, 'libera' da altre terre e circondata dal mare) sul quale il paese sorge”.
Ora, il toponimo è senz'altro composto da due termini, e si può ragionevolmente far risalire il primo a “caput”. Il secondo invece è meno facile da interpretare. Essendo molto probabilmente di origine romana, potrebbe essersi corrotto fortemente nei secoli. La mia personale ipotesi è che la forma originaria possa derivare da Caput Ilva, ovvero promontorio dell'Elba (appunto Ilva per i romani). Questa tesi sembra essere stata partorita dallo pseudostorico Celeteuso Goto, che viene citato da Giuseppe Ninci (“Storia dell'isola dell'Elba”, Portolongone, 1898, pag. 8, note D e 27): “Potius dicendum et Caputliberum quam Caput Ilvae”. Tra parentesi, questa e un'altra citazione di “Celeteuso” riportate da Ninci sono gli unici frammenti letterali a oggi conosciuti dell'opera-fantasma “Cose mirabili dell'Elba”, realizzata dall'anonimo falsario, che molti hanno letto e citato nei secoli XVIII-XIX ma di cui in seguito sembra sparita ogni traccia.
Il fatto però che venga da una fonte screditata non significa che non abbia una sua plausibilità, almeno come strada da esplorare. Ipotizziamo, quindi. Forse in epoca romana l'isola era vista come una sorta di corpo unico, da Cavo a Pomonte, dalla vaga forma a mezzaluna, da cui la penisola capoliverese si staccava come una grossa appendice. Apparendo quindi come il promontorio più significativo dell'isola. Peraltro che l'Elba fosse percepita con una forma a mezzaluna, con la rada di Portoferraio come punto focale, è testimoniato dalle prima cartografie dell'isola, e sarà un'idea ancora viva per parte del Seicento.
Caput Ilva potrebbe quindi essersi corrotto una prima volta in periodo alto-medievale in Caput/Capite Ilba/Ilbae, quest'ultima dizione essendo il nome con cui era conosciuta l'isola per buona parte del Medioevo. Nel primo scorcio della dominazione pisana infine il toponimo potrebbe essere stato italianizzato, nella parlata arcaica dei secoli XI e XII, fino a una forma molto simile all'attuale, come appunto il Capite Libero del 1235, il Capolibero del 1260, o il Capolivri, che ricorre spesso nei documenti dello stesso XIII secolo.
Il paese oggi mantiene ancora una vivezza di toponimi del suo passato, che lo rende il più interessante tra i centri storici dell'isola. Ben presenti nella parlata attuale sono nomi evocativi come le Mura, la Torre, il Fosso, il Baluardo, la Fortezza, la Piazzarella. Nonché il Chiasso Torto, lo splendido vicolo Lungo, uno stretto passaggio che mantiene la sua suggestione medievale. E il Gitto, l'antica discarica paesana e oggi apprezzatissimo punto panoramico.
Molti di questi toponimi giungono dalla seconda metà del Cinquecento, dopo i devastanti attacchi turchi degli anni '50 del secolo, quando il paese fu molto probabilmente interessato da massicci lavori di fortificazione, con la dotazione di una cinta muraria turrita. Di essa sembra esserci una prima traccia in un documento del 1575, dove si parla di una porta che serrava l'accesso al paese (cfr. Gianfranco Vanagolli, “Turchi e barbareschi all'Elba nel Cinquecento”, Roma, 1994, pag. 57).
E un appunto interessante ci giunge anche da Averil McKenzie-Grieve (“Aspects of Elba”, Londra, 1963, pag. 48): “As early as 1335 the Capoliveresi protested to Pisa that as they worked out in their wineyards and 'Terra Capoliveri non est murata', they could not protect their houses from the depradations of these men [i corsari], nor prevent them from living in the commune, wich was an offence in itself. But I found no evidence that the Pisan elders were co-operative, for the walls were being built only in Lupi's time when he sent Piombino 'all the expenses incurred in the building of the wall'”. Il Lupi a cui l'autrice fa riferimento è il notaio Plauto Lupi, attivo nell'ultimo scorcio del XVI secolo.
Ma non è detto che qualcuna di tali tracce toponomastiche militaresche affondi le sue radici in un periodo più antico, e faccia riferimento alla Capoliveri medievale. È sicuramente il caso della Porta a Staldo, attestata in un documento trecentesco, e di cui oggi si è persa memoria e ubicazione. Il termine “staldo” potrebbe far riferimento a “castaldo”, ovvero l'antico amministratore dei beni di una comunità, forse perché presso quella porta si trovava la sua abitazione.
Altro toponimo interessante e oscuro è la porta di Cintoja, citata da Vincenzo Mellini (“Capoliveri”, pubblicato a cura di Gianfranco Vanagolli, Roma, 1996, pag. 48), “che restava verso Portoferrajo”, quindi forse ubicata alla Piazzarella. Potrebbe essere stata realizzata con la cinta cinquecentesca, e lo stesso autore afferma che fosse risparmiata dalla distruzione per rappresaglia del governatore longonese Pinel, nel 1708, ma persa inesorabilmente nel corso degli anni seguenti.
Nomi antichi che giungono da un passato forse un po' più recente sono quelli che si trovano oggi inclusi nel centro urbano, ma fino a due secoli fa esterni: i Murelli (l'attuale piazza Matteotti), l'Aia (oggi piazza Garibaldi), la Soprana, la Croce, il Pozzo Vecchio e su tutt'altro versante il Pozzo Novo, importanti riserve d'acqua per un paese che risolverà i suoi problemi idrici solo alla metà del Novecento.
Di altre località periferiche resta il ricordo invece nella mappa catastale ottocentesca: la recente urbanizzazione ha cancellato non solo il nome di esse, ma anche le coltivazioni e le antiche attività che vi sorgevano. È il caso della Pianella, il pianoro dove oggi sorge il palazzo scolastico. La Fontaccia (l'attuale parcheggio di Arigalardo), che alimentava il fosso dei Pinelli, che forma la vallata della Madonna delle Grazie, e la cui acqua veniva molto probabilmente sfruttata dai paesani. La Cava, lungo l'attuale via dei Caduti, dove forse si estraeva calcare per le fornaci di calce. E appunto la Calcinaia, sul versante opposto, dove oggi sorge il rione Figaia. A questo proposito gli anziani ricordavano che tra questa località e la Soprana esisteva prima della guerra una fornace, la cui descrizione era compatibile con la struttura di una fornace da calce. E ancora Padron Piero, come era chiamata la zona dove oggi sorge lo scheletro del mai realizzato parcheggio ipogeo, e riporta alla memoria un antico possidente dell'area. E come non citare la stradella del Calafato, oggi non più esistente, ma che per secoli ha consumato le suole di generazioni di capoliveresi, che dal paese scendevano alla chiesa romanica di San Michele.
Splendido poi il dimenticato toponimo della vallecchia di Salicicchiero (che potrebbe derivare da un piccolo salice, ma anche dal soprannome di un altro possidente), che scava i fianchi della Fornacella, anche questo toponimo probabilmente derivante da fornace per la calce.
Ormai solo nomi, legati ad attività che oggi sembrano quasi incomprensibili, ma per secoli hanno assicurato il pane ai nostri nonni.
Andrea Galassi