“ILVA VINI FERAX “ (“Elba di vino ferace”).
Così, Plinio, scrittore e storico dell’antica Roma (primo secolo d.C.), definisce l’Elba.
Questa citazione ricorda che l’isola era nota sin dai tempi più antichi per la produzione del vino e la coltivazione della vite. Di questa antica e tradizionale attività isolana, sono testimonianza le anfore
vinarie recuperate sui fondali intorno all’Elba insieme coi resti di antiche navi le quali trasportavano il vino con molta probabilità fino nelle mense imperiali di Roma.
Aulo Gasparri, fu titolare di una casa vinicola produttrice di spumanti e vini tipici elbani (“Spumelba”, nei pressi di Portoferraio), nel suo libro “Lo Zibaldino. Noterelle elbane e facete Editrice Stefanoni. Lecco.1981” così parla della tradizionale vitivinicoltura isolana ”L’Elba può vantare da tempo immemorabile una notevole tradizione enologica e ancora oggi la viticoltura riveste una fonte di ricchezza e di prosperità nella sua economia. Forse la vite nacque spontanea o
forse furono le genti semitiche a trasportarla nell’isola in una delle loro trasmigrazioni verso l’occidente e vi prosperò avendovi trovato terreno ferace e clima adatto.Senza addentrarsi troppo nella leggenda si può affermare che la viticoltura elbana è tanto antica quanto possono essere le più remote memorie che dell’isola fanno cenno…”
Rispetto a quei tempi remoti ricordati da Aulo, in epoca molto più recente (1879) l’ing. Giulio Pullè parla in modo dettagliato e con dati tecnici di produzione di vino e di coltivazione della vite all’Elba nella sua opera “Monografia agraria del circondario dell’isola d’Elba. Con cenno storico”
Tipografia Elbana. Stab.to Lit.o e Fot. R. Marocchini, Livorno. Portoferraio 1879”
Così il Pullè: ”La coltura dei vigneti è quella che fra tutte le industrie agrarie del circondario ha l’importanza massima, essendovi impegnati quasi cinquemila ettari di terreno, vale a dire un quarto della superficie totale dell’Elba, e rendendo da sola molto più che non tutte le altre unite insieme..”
L’autore elenca la qualità dei vitigni più diffusi: biancone, procanico, sangioveto, aleatico, ansonica, moscatello, paradisa, malvagia, caranella, colombana, riminese, luglierina.
“…sono state introdotte anche viti di Francia della Borgogna e del Bordolese, e siccome hanno trovato nell’isola un habitat favorevole e fruttugiano abbondantemente sia in piano che in collina, stanno prendendo un discreto sviluppo…. La coltivazione delle viti è assai avanzata ed ha il non piccolo pregio della uniformità…”
Il Pullè poi si sofferma sui modi di coltivazione e sui momenti più importanti. “…le piantagioni sono fatte a filoni, colla distanza di un metro da pianta a pianta o da filone a filone, dopo che il terreno è stato coltato,ossia smosso e rovesciato per un metro e più di profondità.
Non si adoperano mai le barbatelle, ma sempre maglioli, che si scelgono dalle viti migliori e più feconde… I maglioli si infliggono nel terreno coltato e spianato a mezzo di un ferro detto verrina il quale è bipartito all’ estremità inferiore, lungo un metro e del diametro di 18 millimetri. Dopo piantati, i magliuoli si recidono con le forbici sopra il secondo o terzo occhio…”
Questo è il metodo di coltivare le viti:
“In dicembre si scapecchiano,cioè si recidono con ben affilato trincetto o pennato, i tralci aldisopra del sesto o del settimo occhio,sciogliendo le viti dai pali (se sono palate) per lasciarle libere alla potatura. In gennaio si fa la potatura colle forbici (da pochi col pennato) e quindi, se le viti non sono tenute basse od a ceppaia, si palano a capannelli…Agli ultimi di febbraio si zappano a gabbione alla profondità di 40 centimetri con zappa o bidente, acciglienando la terra in mezzo al filone, onde le viti rimangono scalzate. Nell’aprile si fa la ritoccatura,cioè si tornano a zappare in modo che le viti siano rincalzate e resti una fossetta, appunto dove si trovava il ciglione.
Nel maggio si fa la spollonatura, cioè si tolgono alle viti i getti inutili e si raccomadano i buoni ai pali, legandoli non molto strettamente con giunchi, perché i venti non li danneggino. Nei primi di giugno si recidono le sommità dei tralci aldisopra dei pali con falce o trincetto. Nel luglio si fa la seconda ritoccatura o meglio rigovernatura, smovendo e spianando superficialmente la terra e mirando in special modo a liberare le vigne dalle erbe.
In generale si sogliono fare tre solforazioni: la prima quando la vite è in gemma, la seconda dopo la spuntata, la terza agli ultimi di giugno.
L’ultima operazione che si fa ai vigneti è quella di spogliare,dieci o quindici giorni prima della vendemmia, la vite dai pampani, onde l’uva resti ben soleggiata e si maturi egualmente….”
Il Pullè continua e dice che il vino “è la grande risorsa dell’isola d’Elba: se per un accidente quella venisse a mancare, questa piomberebbe d’un tratto nella miseria, intesa nel più stretto senso della parola. Credo di essere nel vero asserendo che il benessere morale e materiale e l’aumento della popolazione elbana hanno camminato di pari passo collo sviluppo della sua industria vinifera”
Il periodo più florido per viticoltura elbana è stato quello intorno agli anni 1880-1888 in cui si raggiunsero i 5000 ettari coltivati a vigneto ed una produzione di circa 150000 ettolitri di vino.
In effetti in quell’epoca, le cronache storiche dimostrano che la popolazione diminuì fortemente negli anni in cui la crittogama decimò i vigneti. La miseria aumentò come pure l’emigrazione.
La fillossera costituì il più grande flagello della viticoltura elbana: si manifestò verso il 1890 raggiungendo il massimo nel 1893.
Trovato il modo di salvare la vite, il popolo elbano tornò ad impiantare viti: il contadino faceva denari (anche perché il prezzo del vino era notevolmente salito), comprava piccoli appezzamenti e piantava nuove vigne. La produzione rimontò tanto da superare la situazione che c’era prima della crittogama e la popolazione tornò a crescere.
Ancora il Pullè sulla tecnica della vinificazione: “…il metodo di fare il vino quale è tenuto dagli elbani, è più imperfetto che semplice. Eccone il processo: si vendemmiano le uve a settembre, raccogliendo le bianche prima e le nere poi. Si sgrappano un poco e quindi si ammostano coi piedi da tre gabbie di legno poste aldisopra dei palmenti, in cui passano ammostate. I palmenti sono pile in muratura, a base quadrata o rettangolare, alte da un metro e mezzo circa e di larghezza variabile da un metro e mezzo a due, totalmente aperte aldisopra e con un sifone aldisotto. Ognuno in cantina ha uno o due palmenti, secondo l’estensione del vigneto. In questi recipienti, che si procura di empire in un sol giorno, avviene la fermentazione, la quale non si protrae comunemente al di là di sei giorni, di rado la si lascia raggiungere gli otto. Durante la fermentazione si tengono coperti i palmenti con tavole di legno o con coperte bagnate, per togliere al contatto dell’aria i grappi portati alla superfice dal mosto in ebollizione. Scorso il tempo destinato alla fermentazione, si fa sortire il vino per l’apertura inferiore dove è collocato il sifone e si riceve in recipienti di terra, legno o rame si porta in botti ben preparate e diligentemente insolforate.
In queste il vino prosegue per più giorni la sua fermentazione,avendo i gas libera uscita dal cocchiume, non tappato che con una foglia di fico. Le botti si ricolmano spessissimo fino a mezzo novembre, alla quale epoca si chiudono ermeticamente. In generale il vino si vende subito fatto o durante l’inverno: se però le vendite si protraggono, allora si fanno due travasi, uno nel gennaio e l’altro al marzo. In settembre si travasano nuovamente i vini che si vogliono invecchiare. Ciò si fa eccezionalmente per i soli vini di lusso….Non tutte le uve dell’isola vengono convertite in vino sul luogo, una grandissima partita viene venduta ai mercati del genovesato che la trattano alla loro maniera….”
La gran parte dei vigneti era divisa tra un numero infinito di piccoli proprietari essendo pochi i forti e grandi produttori: tra questi, il Pullè ricorda i signori Traditi, Damiani, Mibelli, Tonietti, Vadi, Perez ecc. Nelle case dei piccoli proprietari era la cantina la parte più bella e più curata con a disposizione attrezzi per la vinificazione e la conservazione del vino. Nella cantina sono posti i palmenti e le botti. Le botti sono tutte in scelto legno di castagno: contengono in genere da 20 a 50 ettolitri ma molte hanno capacità maggiori fino a 100 ettolitri. Il vino non viene mai posto nelle botti se prima non sono state diligentemente insolforate. (Pullè idem come sopra)
Alberto Mori (“Studi geografici sull’isola d’Elba” Pisa. 1960) descrive la viticoltura elbana sul finire degli anni cinquanta del secolo passato ”… attualmente la viticoltura elbana è specializzata ed investe una superfice di oltre 3000 ettari che rappresentano il 14% del territorio totale…la quantità globale di uva prodotta si aggira sui 200 mila quintali annui(circa 70 quintali per ettaro) costituitita per oltre tre quarti da uve bianche (procanico e biancone) ed il resto da uve nere
(essenzialmente sangiovese) e, in modesta proporzione, da uve da tavola, da aleatico e moscato”.
Con la vendemmia del 1956 e i contribuiti per la cassa per il mezzogiorno venne fondato l’Enopolio dalla federazione dei consorzi agrari in località S.Giovanni (Portoferraio), chiamato “Cantina Sociale” perché creato allo scòpo di far sì che la produzione del vino non venga fatta oggetto di speculazione al momento della vendita (Mori idem come sopra).
Nel 1982 la superfice agraria utilizzata coltivata a vite era in tutta l’isola pari a 565 ettari (1/4 della superfice agraria utilizzata complessivamente all’Elba) con i comuni di Campo Elba, Capoliveri, Marciana, Portoferraio che superavano ciascuno i 100 ettari con una produzione totale di elba bianco di 4140 ettolitri ed elba rosso di 1714 ettolitri (da “Il vino dell’Elba” Renzo Pratesi. Camera di commercio industria artigianato e agricoltura. Livorno).
E’ evidente la forte contrazione della viticoltura avvenuta dalla fine degli anni cinquanta quando l’estensione della superficie agraria utilizzata a vite era pari a 3000 ettari. (Mori)
Ma il crollo è ancora più evidente se il paragone viene fatto col periodo più florido per la viticoltura isolana (1880-88) quando la superficie agraria utilizzata a vigna era pari a 5000 ettari (Pullè)
Recentemente il centro studi e servizi della camera di commercio maremma e tirreno ha pubblicato i risultati della vendemmia 2018 https://www.lg.camcom.it/moduli/output_immagine.php?id=4456
A pagina 6 della relazione, la tabella 7 evidenzia che nel 2018 all’Elba la superficie utilizzata a vite per la produzione di vino di origine controllata (DOC) era pari ad ettari 74,25 mentre quella per la produzione di vino di origine controllata garantita (DOCG) era pari ad ettari 13,30.
Se i numeri hanno un significato è molto comprensibile l’appello lanciato nel maggio u.s. dal consorzio vini Elba per sostenere la continuità della produzione vitivinicola dell’isola
http://www.elbareport.it/politica-istituzioni/item/41853-lappello-del-consorzio-vini-elba-per-sostenere-lacontinuit%C3%A0-della-produzione-vitivinicola-dellisola
Se guardiamo al passato la viticoltura era una vera e propria industria: “industria vinifera” tale la chiamò il Pullè. Il passato indica anche che oggi, con le moderne tecniche, tale industria solo se recuperata, potrebbe creare posti di lavoro per tutto l’anno ed essere risorsa economica aggiunta a quella derivante dal turismo ambientale e balneare.
Marcello Camici