A osservare il mondo con gli occhi dell’oggi, parlare di archeologia senza parlare, anche, di agricoltura, è praticamente impossibile. Questo vale non soltanto per il Neolitico, l’età della nuova pietra, il periodo nel quale si diffusero coltivazioni e allevamenti, a partire da più di 10000 anni fa, con tempi che si accorciarono spasmodicamente. In Italia meridionale le prime forme di coltivazione dovrebbero risalire, più o meno, a 8-9000 anni fa. La “agri cultura” è una costante della nostra civiltà, già poco dopo il 1000 a.C. La nascita delle prime città sulla penisola (Roma, Veio, Vulci, le colonie della Magna Graecia e della Sicilia) èconnessa con una crescita esponenziale di tecnologie agronomiche, di produzioni,di consumi (cereali, olio e vino: la famosa triade mediterranea). A Roma, fin da Romolo, la perizia nel coltivare è considerato un valore fondativo: se non sei un bravo agricoltore non puoi essere neanche un buon cittadino. La bravura agronomica diventerà così quasi un’ossessione, come il diritto di accesso alla terra. La libertas del cittadino passa anche dal suo essere possessore di terra e si consolidano alcuni nessi logici affascinanti: culto-agricoltura-cultura sono concetti diversi ma con la stessa radice e vicinissimi tra loro. “Agricola” è l’agricoltore in senso generico mentre “in-cola” è colui che la terra la coltiva abitandoci.
Da allora, la storia d’Italia è anche (molto) storia dell’agricoltura, o economia primaria. Storia di mille piccole patrie, di decine di migliaia di paesi che hanno saputo, nel tempo, inventare, assimilare, conservare, rivoluzionare. Storia di case, ville, poderi, masserie, fattorie, cascine…
L’archeologia racconta dell’agricoltura i diversi modi dell’abitare in campagna, dalle capanne della transumanza ai castelli, i diversi modi di dividere i campi, i diversi modi di condurre le coltivazioni, i diversi modi dello sfruttamento.
Da archeologo ho collaborato alla descrizione dei grandi exploit dell’agricoltura di pregio in Maremma (tra Etruschi e Romani), della costruzione dei paesaggi delle abbazie nel Monte Amiata, delle trasformazioni dei paesaggi nel Salento (Brindisi), dei rapporti dialettici tra produzione primaria e bacini minerari a Populonia.
Adesso mi trovo a lavorare ad uno straordinario esperimento di ricerca, di valorizzazione, di comunicazione, di storia e archeologia pubblica all’Isola d’Elba. Lo scavo di San Giovanni non è solo uno scavo archeologico universitario ma anche un laboratorio all’aperto, che ci permette di capire da dove veniamo e di fare progetti per il futuro, e uno straordinario spazio aperto, nel quale sono nate nuove forme di cooperazione, interazione, scambio, partecipazione, reciprocità, condivisione tra ricercatori, istituzioni, scuole, associazioni, imprese, cittadini. Grazie anche all’ospitalità della famiglia Gasparri. Tutti questi soggetti, da noi, sono di casa e parliamo insieme delle cose che facciamo e di quelle che vorremmo ancora fare. Sono belle ed emozionanti le collaborazioni con l’Accademia dei Georgofili, con la manifestazione internazionale La terracotta e il vino e con il nostro amico di sempre, Azienda Agricola Arrighi.
Su questo argomento convergono molte tesi di laurea in corso: sulla storia del paesaggio vegetale della rada (Francesca Patrignani), sulla cucina e sull’alimentazione nella villa di San Giovanni (Fabio Manfredelli), sulla provenienza delle anfore trovate nell’edificio (Filippo Barthelemy), sulla storia dei fondali della rada (Niccolò Carli)…
Ulteriori suggestioni provengono dalla ricerca in corso sulla villa delle Grotte ma di quelli parleremo in altra occasione.
Ma qui mi fermo, per ora. E mi rivolgo ad Angelino Carta, a Gloria Peria e a tutti quelli che possano essere interessati: vogliamo pensare ad un progetto di Museo di Storia dell’Agricoltura (all’Isola d’Elba? Dell’Arcipelago Toscano?). Il mio invito è rivolto, naturalmente, anche al Parco Nazionale Arcipelago Toscano.
Sentiamoci. Anzi, sentiamoci presto.
Franco Cambi
Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali
Università degli Studi Siena