Capivamo che arrivava il Natale quando la vetrina del Bazaar di Mariacosta (al secolo Maria Costa) si riempiva di pastori e gli scaffali all'interno si popolavano di San Giuseppi, Madonne, asini, buoi e Gesù Bambini di ogni dimensione.
Noi facevamo (chi lo faceva) il presepio, l'albero era una cosa estranea, una roba che vedevamo luccicare piantata in piazza di sopra e, a volte, un ramo di ginepro che trovavamo mentre andavamo a fare legna e lecciaiole tardive a Siccione e che poi adornavano con un paio di palline e un festone rosso brillante, di quelli pelosi come un boa di struzzo delle gemelle Klessler che ballavano conturbanti e scosciate in televisione.
Passavamo le ore davanti a quella vetrina coi pastori, con alle spalle la tramontana che ci soffiava il sale sulle gambe nude, sognando di comprare quello nuovo e mai visto o di sostituire un Re Magio trovato decapitato nel sacchetto dove lo avevamo messo a riposare per 11 mesi insieme a un gregge di pecore, diverse papere, e uno strano villaggio ebreo-palestinese dove – come avrei scoperto qualche anno più tardi – si esercitavano mestieri improbabili che sarebbero stati blasfemi ai tempi di Gesù.
Guardavamo i pastori e intanto ci contavamo gli spiccioli in tasca che mettevamo da parte grazie a qualche servizio e telegramma portato casa casa che ci affidavano Ortensia e le sorelle, che allora – quando le cabine e i gettoni erano ancora da venire e i telefonini erano una cosa che non prendeva in considerazione nemmeno la fantascienza – gestivano la vera e propria centrale telefonica che teneva in contatto La Marina con il resto del modo.
Quando avevamo raggiunto la cifra giusta, dopo aver fatto qualche sopralluogo sotto lo sguardo severo di Mariacosta (una delle poche alla quale non abbiamo mai rubato nulla), entravamo e compravamo il pastore delle nostre brame come se fosse un pezzo raro da collezionisti.
Le cose, per le nostre tasche, cambiarono quando arrivarono i pastori di plastica, un affronto a una tradizione della quale non ce ne fregava niente ma un balsamo per le nostre tasche sfondate. E poi somigliavano un sacco, ma più belli e realistici, ai soldatini di plastica che – quelli sì – rubavamo a man salva al Pallino che teneva il banco dei giocattoli al mercato in piazza di sopra. I pastori di plastica erano colorati, smontabili, indistruttibili e non si sciupavano nemmeno a contatto con l'erbino appena fatto, che andavamo a raccogliere il 23 dicembre.
Era quel muschio, quello spesso e verde e quello soffice e bianco come la neve che usavamo come base per costruire la nostra Betlemme immaginaria dove cantavano due angeli muti, il cielo era fatto di un'introvabile carta stellata e le anatre nuotavano in uno stagno di stagnola alimentato da un uviale argentato e accartocciato dove si abbeveravano le pecore di un gregge scompagnato e di dimensioni improbabili per essere di pecore imparentate.
Se il bazaar di Mariacosta era il posto dove scovavamo i personaggi, nelle falegnamerie trovavamo le case della nostra Palestina immaginaria. Noi andavamo in quella di Irio Tondi a fare incetta di scarti di finestre e porte: i tavolelli che diventavano, con chiodi e colla e pennello, case improbabili per pastori ebrei, visto che sembravano più quelle arrampicate sugli scogli del Cotone.
Di regali a Natale per noi non ce n'erano e quando entravamo da Mariacosta guardavamo quelli in mostra senza nessuna invidia, ma la padrona del bazaar sapeva benissimo che i Natali in Paese erano due: quelli delle bambole e delle macchinine a pedali e quelli dei presepi con l'omino che, immancabilmente, e chissà perché, cacava proprio dietro la capannuccia, non lontano dall'oste briaco che vendeva prosciutti e salsicce che la sacra famiglia – per non parlare del bue e dell'asinello - avrebbe considerato un cibo abominevole e sacrilego.
Noi non aspettavamo Babbo Natale, aspettavamo la Befana che, oltre ad avere le scarpe rotte era anche comunista, visto che andavamo a prendere quella che consegnava all'asilo la Provincia rossa di Livorno, Ed eravamo così poco abituati ai giocattoli che raramente arrivavano a sopravvivere più di 5 giorni e le più volte non superavano l'Epifania. Riguardo alle due figure natalizie direi che più credenti eravamo agnostici, come quelli che si convertono da vecchi perché non si sa mai, la Befana può anche portarti una pistola a fulminanti.
Ma quello che ci piaceva davvero era il presepio che non era certo bello come quello in Chiesa o quello della scuola elementare, dove tutti eravamo obbligati a portare una figurina per renderlo sempre più affollato. E a noi in casa mancava tutto ma non una sgangherata credenza con un piano bello lungo sul quale stendere l'erbino e costruire la nostra effimera città celeste alla quale aggiungevamo ogni anno i nuovi pastori di Mariacosta. Credo che a quel bimbetto biondo e roseo nella mangiatoia piacesse quell'affollato simulacro della sua nascita, quel presepe di povere cose e poveri pastori di plastica e cartapesta in una casa di poveri.
Il presepe si faceva alla vigilia, ma quello era un giorno sacro anche per le bevute e le bettole facevano concorrenza a Don Zeni per gli incassi. Il presepio lo potevamo fare solo quando tornava in casa la sera il mi' babbo Veleno e di solito arrivava con un tasso alcoolico festivo, quell'anno tornò con un pellone che a misurarlo sarebbe stato più alto della stella di Natale del pino in piazza.
Avevamo preparato tutto: il sacco con l'erbino, la capannuccia, la carta stellata con qualche strappo e molte grinze, la stagnola messa da parte, pecore e bestie varie e la Madonna, San Giuseppe, Melchiorre con l'oro, Gaspare con l'incenso e Baldassarre con la mirra che nessuno sapeva cos'era, la stella cometa e gli angeli da appiccare in qualche modo in un cielo ipotetico e, naturalmente l'omino che caca pronto all'uso.
Cominciammo a stendere l'erbino come fosse una fresca prateria che probabilmente nella desertica Betlemme nessuno aveva mai visto, ma Veleno disse che stavamo sbagliando tutto: prima si faceva il presepio e poi si metteva l'erbino. Ne venne furi qualcosa di simile a una catastrofe naturale, un piccolo Vajont verde con la capannuccia, il paese di tavolelli e tutti i personaggi del Natale sepolti sotto una strato di muschio terroso. Si salvarono solo la stella cometa e gli angeli che continuarono a cantare gloria a Dio dall'alto dei cieli. Forse i Re Magi sui loro cammelli se ne tornarono in Persia e nel regno di Saba.
Per la mi' mamma Jole fu uno dei peggiori Natali della sua vita, noi ci divertimmo un sacco.
Buon Natale
Umberto Mazzantini