Anche questo 25 aprile lo voglio dedicare a tutti gli antifascisti e perseguitati elbani e alle vittime della violenza fascista. Oltre duecento esseri umani che hanno sofferto, nel corpo e nell’anima, chi più e chi meno, a causa delle stringenti e umilianti misure messe in atto dal Regime, privati di alcune delle più importanti libertà individuali. Questi personaggi, il cui ricordo sbiadito vive oggi soltanto nei loro discendenti, sono in molti casi finiti nel dimenticatoio o in qualche fascicolo di polverosi archivi storici. Ma per fortuna, proprio grazie alla ottima – a mio avviso – gestione archivistica toscana e alle decine di biblioteche attive sul fronte della conservazione e della salvaguardia della memoria storica, è possibile trovarne traccia.
Per capire il complesso e variopinto fenomeno dell’antifascismo elbano a partire da una doverosa premessa sulle dinamiche repressive del Regime fascista, riassunte secondo un ordine cronologico, consiglio la lettura di un mio lavoro appena pubblicato su academia.edu: si tratta di un’analisi sistematica – tuttavia limitata ai documenti a disposizione – dell’antifascismo elbano fondata in parte sul carteggio rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Livorno e, soprattutto, su numerosi fascicoli raccolti a Roma e seguentemente pubblicati da Ivano Tognarini – compianto storico piombinese – coautore assieme a Davide Jebes e Sandro Nannucci di una notevole ricerca presso il Casellario Politico Centrale per conto dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana. L’obiettivo dichiarato di Tognarini fu quello di creare un supporto di fonti per stimolare nuove ricerche sulla repressione politica degli antifascisti elbani, dal momento che, come lui stesso ha dedotto, si tratta di un « capitolo di storia troppo frettolosamente chiuso e dimenticato ». I numeri messi in mostra dallo storico sono funzionali per screditare un filone revisionistico secondo il quale gli elbani avessero accolto tout court il fascismo e senza affacciare una consistente opposizione; Tognarini ha sostenuto che fosse sufficiente citare « i numeri stessi di coloro che incapparono nelle misure poliziesche e repressive del Regime per dimostrare quanto esteso, articolato e diffuso fosse il non consenso alla dittatura ».
In estrema sintesi, l’antifascismo elbano si può considerare come una prosecuzione del più vasto e antecedente fenomeno del sovversivismo, delineatosi negli anni delle lotte sindacali ben prima dell’avvento del fascismo; ed è racchiuso nelle storie dei suoi oltre duecento protagonisti, cui si dovrebbero aggiungere anche quelle dei resistenti, pronti e solidali durante i nove mesi di occupazione nazista e durante la battaglia di liberazione: storie di fughe notturne, di persecuzioni fin oltre i confini nazionali, di carcere, di esili in isole lontane, di famiglie divise con figli costretti a crescere senza la figura paterna, di dissenso e malessere interiore covato per un lungo tempo, di sabotaggi e iscrizioni murarie. Non diversamente da altre zone d’Italia, questi individui, in larghissima parte anarchici e socialisti, dopo aver tentato di combattere politicamente i fasci, dopo aver provato a resistere allo squadrismo per almeno un lustro uscendone con le ossa rotte, combattuti dagli eventi furono costretti ad assaggiare il ‘pugno di ferro’ del fascismo, quando furono emanate le tristemente celebri leggi liberticide, le ‘fascistissime’, nel biennio 1925 - 1926 e funzionali al processo di trasformazione dell’ordinamento giuridico del Regno in un regime totalitario. Furono in particolare i « Provvedimenti per la difesa dello Stato », legge del 26 novembre 1926, a legittimare la repressione del dissenso politico e istituendo nuovi strumenti di vigilanza poliziesca e rafforzandone altri, concedendo maggiori poteri alle autorità di Pubblica Sicurezza.
Il paper citato, che in realtà rappresenta un intero capitolo di una ricerca ben più corposa sul Ventennio elbano, è visibile a questo link:
https://www.academia.edu/47725583/Perseguitati_e_Antifascisti_Elbani
E così, in onore della più importante ricorrenza dell’Italia repubblicana, il racconto di alcuni episodi che hanno avuto come protagonisti due elbani di Capoliveri.
Ugo Cardenti, detto ‘Ugo della Finocchia’, nacque nel 1910 a Capoliveri; bracciante e manovale, fu uno dei più vivaci sovversivi elbani.i Conosciuto genericamente come antifascista e schedato dal 1928, l’ultimo cenno biografico del fascicolo risale a dieci anni dopo quando la Questura lo segnalò in Spagna a combattere contro i franchisti nella Guerra Civile. Divenne famoso per essere fuggito per ben due volte, clandestinamente, in Corsica. La prima fuga nel marzo del 1933, mentre l’ultima nell’aprile del 1937. In questa seconda traversata, la sua storia si è intrecciata con quella di alcuni militari antifascisti confinati a Portoferraio e con quella di un altro celebre sovversivo capoliverese, Francesco Puccini. Il Cardenti, con la complicità del compaesano, escogitò un piano di fuga e ingannò i fascisti. Prima di narrare questo suggestivo episodio, si cercherà di ripercorre le fasi salienti della sua vita.
Nel fascicolo personale, Cardenti viene presentato come un elemento intelligente, dal carattere subdolo e riservato, nonostante fosse di scarsa cultura. Prestò due anni di servizio nella Regia Marina e questa esperienza gli tornò utile per le sue imprese marinaresche. Fin da giovanissimo, alla fine degli anni ’20, fu segnalato assiduo frequentatore di pregiudicati e sovversivi schedati di Rio Marina e Capoliveri, seppur senza mai manifestare tendenze politiche o eccessi di qualsiasi genere. Eppure ciò fu sufficiente per essere annoverato nel Casellario Politico e messo sotto stretta vigilanza. Uno dei malvisti compagni, spesso a suo fianco, era proprio Francesco Puccini, pescivendolo di un anno più grande, schedato come attaccabrighe, violento e insofferente d’ogni disciplina. Passò qualche anno finché, spente 23 candeline, Cardenti decise di espatriare. Avrebbe in seguito giustificato la fuga per motivi di lavoro, assolutamente plausibili visto che nelle miniere non vi era più posto per i sovversivi, una volta affermatosi il PNF. Poi, non era affatto una rarità per gli elbani dileguarsi nella ‘vicina’ isola francese, purché si consideri circa 30 miglia nautiche di navigazione, spesso con piccoli natanti, un rischio accettabile per sfuggire alle persecuzioni. Difatti, pochi mesi dopo, a luglio, quando le condizioni del mare sono le più stabili dell’anno, anche il Puccini intraprese il viaggio con una barca a remi, portandosi dietro tre giovani capoliveresi ― secondo la Questura « traviati » ― ai quali, dopo averli prospettato vantaggi economici, li convinse che in Francia avrebbero avuto maggiore libertà.ii Tornando al Cardenti, dopo la prima fuga, il Regio Console di Bastia, nemmeno un mese dopo lo sbarco del sovversivo, lo segnalò alla P.S. italiana intento a distribuire nella cittadina di Migliacciaro dei manifestini sovversivi ai molti connazionali lì presenti. Perciò il Console rassicurò i fascisti che lo avrebbe opportunamente sorvegliato. Ad Agosto quindi, su pressioni del Console, fu espulso dalla Repubblica Francese e, stando alle informazioni raccolte dagli uffici di Bastia, Cardenti si diresse in Marocco. La famiglia perse le sue tracce, ma nel febbraio del ’35 l’elbano tornò in Italia, segnalato dal Questore e sbarcato con un postale francese a Livorno, pulito alla perquisizione e in possesso di regolare passaporto. Così tornò all’Elba dove, su volontà del Ministero, fu interrogato dai CC.RR. di Portoferraio; Cardenti negò l’accusa di aver svolto attività sovversiva e precisò di essere emigrato alla ricerca di un’occupazione e di essere rientrato in Italia volontariamente e non perché espulso dalla Repubblica. In seguito, scontò la pena infertagli dal Tribunale di Livorno per espatrio clandestino a tre mesi di reclusione più ammenda e si stabilì con la propria madre a Capoliveri, dove continuò a lavorare saltuariamente come manovale, tenendosi lontano dalle organizzazioni del PNF anche se continuò a frequentare i sovversivi del luogo.
Due anni dopo — e da qui inizia il racconto della vicenda più interessante — Ugo Cardenti sparì da Capoliveri: segnalato latitante dai suoi sorveglianti, venne ricercato in tutta l’Elba perché sospettato di aver favorito la fuga di tre militari, antifascisti, costretti al confino di Polizia a Portoferraio e inquadrati nel 2° Reparto Speciale dell’88° Reggimento di fanteria. Il 10 aprile del 1937 non era scomparso solo il sovversivo in questione ma anche i tre soldati, e le autorità dell’isola avevano intrapreso una incessante caccia all’uomo che ben presto si rilevò inutile, tanto era evidente che si fossero già allontanati dall’isola. Ma tutto cominciò all’alba dello stesso giorno: un telegramma cifrato con precedenza assoluta e inviato a ogni questore del Regno denunciava la scomparsa dei tre soldati antifascisti, Marino Mazzetti, Giuseppe Boretti ed Eugenio Giovanardi, riportandone i tratti somatici identificativi. A Portoferraio il fatto fece scalpore: « per mesi e mesi non si parlerà d’altro […] arriva il Podestà col codazzo di camicie nere coll’affanno, il telefono scotta, il telegrafo pure »iii, si mossero tutti gli esponenti del PNF e le autorità militari, in prima linea per venire a capo della scomparsa dei confinati. Erano increduli al limite della disperazione, si posero molte domande cercando eventuali falle nel sistema: gli antifascisti si erano fatti beffa del fascismo e in quel momento era una rarità intollerabile. Ma era troppo tardi: i quattro individui avevano già preso il largo salpando per la Corsica.
Dopo le indagini della P.S. di Portoferraio, fu stilato dalla Prefettura un lungo rapporto sulla vicenda, preteso dal Ministero dell’Interno, del quale se ne riassume il contenuto.iv In pratica, fu una cospirazione perfettamente architettata dal Cardenti, col favoreggiamento del Puccini e il coraggio dei tre militari. La fuga avvenne la notte tra il 9 e il 10 aprile. Quella mattina, come detto, scattò l’allarme e partirono le ricerche dei tre, ma ben presto da Capoliveri informarono il Commissariato di Portoferraio che mancava all’appello anche il Cardenti. Ciò incuriosì senz’altro le autorità. Nel pomeriggio, si presentò al comando della stazione dei CC.RR. di Capoliveri Francesco Puccini per denunciare la scomparsa della propria imbarcazione, la ‘Maria Lucia’, iscritta al registro navale di Portoferraio. La barca si trovava nell’arenile delle spiaggia di Capoliveri ‘Le Grazie’. Era evidente l’intento del Puccini di crearsi un alibi, consapevole che i militari avrebbero scoperto sicuramente l’assenza del natante. Pertanto i tre eventi, quest’ultimo più l’irreperibilità del Cardenti e la scomparsa dei militari, avvalorarono nelle autorità il sospetto che fossero collegati, pur restando nel campo delle ipotesi. Ma pochi giorni dopo conobbero la sorte dei tre, rintracciati a Bastia grazie a una pubblicazione sovversiva locale che ne decantava la fuga. Il fatto fu confermato da un marinaio, Giuseppe Giannelli il quale, interrogato il 17 aprile, dichiarò che il giorno 12, di passaggio a Bastia al comando di un motoveliero, apprese direttamente da alcuni portuali la notizia che due giorni prima, intorno alle ore 18:00, approdarono con una barca a motore i tre ricercati « inzuppati d’acqua ed affranti dalla stanchezza ».v Giannelli aggiunse di aver visto ormeggiato il mezzo utilizzato dai clandestini. E il Cardenti? Anche questi dopo poco tempo uscì allo scoperto, dal momento che spedì alcune lettere ai propri cari da Marsiglia. Dunque era espatriato anche lui. Allora, sempre secondo questo rapporto poliziesco, le autorità cominciarono a indagare a fondo, cercando di capire intanto il nesso fra i ricercati e, qualora esistesse, se avessero preso il mare insieme; poi interrogarono sull’Isola chiunque avesse potuto aiutarli nell’impresa, a partire dai membri del giro di Ugo Cardenti. Ben presto scoprirono che questo aveva lavorato per una ditta edile che aveva prestato servizio nella caserma ‘De Laugier’ di Portoferraio, dove erano accasati i tre disertori. Apparve ovvio che fosse quello il luogo del primo contatto, ai quali ne seguirono altri per redigere il piano. Di ciò in Questura se ne convinsero. Il piano prevedeva come nodo principale la ricerca del mezzo con il quale fuggire. Se ne occupò ancora Cardenti, pratico dei luoghi. Nel dicembre precedente si recò a Livorno dove acquistò un motore fuoribordo da un tale, Aldo Papadato, per 1.680 lire: una discreta cifra che deve aver risparmiato con molta fatica. Si fece spedire il motore con un’imbarcazione da trasporto merci all’interno di una cassa ben camuffata fino a Portolongone. Dallo scalo, con l’aiuto di un ‘barrocciaio’ suo amico, Nello Nini, la trasportò fino il termine della strada rotabile in località ‘Calone’ sulla costa a sud-ovest di Capoliveri dove, a un centinaio di metri dalla spiaggia, Cardenti possedeva un magazzino di sua proprietà. Ce lo portò in spalla per conservarlo in attesa della stagione propizia. La barca del Puccini era in una spiaggia a pochi minuti di navigazione. Il nove aprile Cardenti si recò a Portoferraio dove in qualche maniera riuscì a prendere gli ultimi accordi con i militari e durante la notte, secondo la Prefettura, questi riuscirono a scappare dalla caserma e lo raggiunsero al magazzino del ‘Calone’. Non a caso i disertori erano ritenuti « scaltri e pericolosi ». Intanto il Cardenti, forse aiutato da Puccini, condusse a remi la barca dalle Grazie alla spiaggia dinanzi il magazzino e insieme installarono il fuoribordo. Così presero il mare.
Sull’Isola restò il Puccini e i fascisti lo misero sotto torchio. Le dichiarazioni rilasciate lo avrebbero scagionato, tuttavia i militari non crederono al furto e, complice la comprovata amicizia con il Cardenti e i suoi noti sentimenti sovversivi, confermati da numerosi delatori di Capoliveri, nonché l’esistenza di alcuni precedenti di cui si era macchiato, costarono al Puccini il fermo e l’accusa di favoreggiamento in diserzione. Ma decisiva probabilmente fu la perquisizione del suo appartamento, nel quale fu rinvenuto un quaderno scritto a penna contenente inni sovversivi. Pur in assenza di prove, i fascisti ritennero che il Puccini fosse al corrente di tutto e avesse concesso ai disertori, dietro compenso, il mezzo della fuga. Ciò che non capiva il Prefetto era il motivo per il quale Cardenti fosse riuscito a racimolare tutti quei soldi per acquistare il motore, troppo caro per le sue tasche. Comunque furono inseriti tutti nella Rubrica di Frontiera e nel Bollettino dei ricercati e ovviamente denunciati al Tribunale Militare in attesa del processo in contumacia. Il 12 dicembre del 1937 il Tribunale Militare di Roma inflisse al Cardenti la pena di 7 anni di detenzione per il reato di concorso in diserzione qualificata ed espatrio clandestino, da scontare quando la P.S. fosse riuscita a fermarlo.vi Sul Puccini, essendo emersa la sua complicità, fu costretto a confessare il favoreggiamento, pertanto fu condannato a 30 mesi di prigione.
In seguito del Cardenti se ne perse le tracce anche se veniva segnalato in Francia dai Carabinieri. Poi, nell’agosto del 1938, un importante aggiornamento sullo stato delle ricerche giunse in Prefettura, confermando le voci che volevano il capoliverese combattente in Spagna. Secondo gli Affari Esteri era inquadrato come miliziano nella 12° Brigata Internazionale ‘Garibaldi’, al servizio degli antifascisti spagnoli.vii Tuttavia nell’inverno seguente la Direzione Generale della P.S. comunicò a Livorno che, da un documento rinvenuto in una sede abbandonata del comando rosso in Spagna, il combattente elbano risultava disperso già dal mese di aprile, al fronte, facendo presagire il peggio sulla sua sorte. Ma il capoliverese non era morto: le autorità vennero in possesso di una lettera giunta da Gurs, vicino i Pirenei francesi, nella quale lo scrivente dichiarò di essere in compagnia di un italiano di nome Ugo Cardenti.viii In seguito, scoppiata la Guerra e capitolata la Francia, nel 1941 gli Affari Esteri fascisti vennero a conoscenza del suo internamento a Vernet, sempre nei pressi dei Pirenei francesi. Su richiesta della Questura di Livorno, i gendarmi del governo collaborazionista di Vichy accompagnarono Cardenti presso il Regio Ufficio P.S. di Confine a Mentone, dove fu tratto in arrestato il 5 gennaio del 1943, essendo iscritto nella Rubrica di Frontiera. Perciò dopo quasi sei anni Cardenti tornò in Italia, sprovvisto di documenti. Fu tradotto a Livorno, interrogato e, in attesa di determinazioni ministeriali, venne trattenuto in carcere fino a quando fu trasferito a Roma, nel carcere giudiziario militare. Dopodiché l’archivio tace fino al 1949, quando Cardenti fu segnalato in Australia, apparentemente felice, ricostruirsi una vita. Ma un articolo de «Lo Scoglio» aiuta a chiarire cosa successe al Cardenti nei mesi cruciali del 1943.ix Riuscì a scappare dalla prigione, probabilmente sfruttando il caos seguente il 25 luglio e rientrò a Capoliveri in settembre. Apprese della morte della madre e che il fratello, ufficiale della Regia Marina, venne fucilato in Germania. I tedeschi stavano per occupare anche l’Elba e per due volte riuscì a sfuggire alla cattura, dandosi alla macchia. Quando i francesi liberarono l’isola, Cardenti fu affidatario de « les affaires municipales », in pratica fu nominato Commissario Prefettizio in attesa delle nuove elezioni. Con grande impegno svolse il delicato compito nel periodo in cui ricomparvero i partiti politici. Quando fu sostituito, divenne segretario della sezione di Capoliveri del PCI. Dopo qualche anno, per cercare fortuna, il lungo viaggio senza ritorno per l’Australia, assieme alla moglie e la figlia. Morì nel 2005, a 95 anni.
Ora è interessante comparare il contenuto di questo rapporto prefettizio con le dichiarazioni rilasciate dal Cardenti durante l’interrogatorio, che si sarebbe svolto il 22 gennaio del 1943, poco dopo il suo arresto a Mentone; tenendo conto quindi che le confessioni possono essere state condizionate dalla delicata situazione generale. In altri termini, Cardenti avrebbe potuto alterare la realtà dei fatti per tentare di trarne giovamento, dal momento che gli si prospettavano 7 anni di galera; o almeno, di non peggiorare la sua situazione. Ma gli eventi e la confusione che seguì la caduta del fascismo lo avrebbero salvato prima di quanto forse si aspettasse. Nel verbale, Cardenti offrì una fantasiosa versione dei fatti che in Questura ritennero inverosimile. Per prima cosa, negò di conoscere i tre militari di Portoferraio, ma fu costretto ad ammettere di aver lavorato alla caserma ‘De Laugier’. Comunque, negò categoricamente di aver avuto contatti con quelli e di conseguenza di aver cospirato con essi per espatriare clandestinamente. Dunque confessò di essere partito per la Corsica assieme a dei marinai di un motopeschereccio, scesi a terra per comperare delle fave la sera del 9 aprile, ai quali chiese di potersi imbarcare. Stranamente non ricordava nessun nome, né della barca né del suo equipaggio. Giustificò l’acquisto del motore, frutto dei suoi risparmi, con l’intenzione di usarlo per pescare pur non disponendo ancora di una barca. Allora vista la spesa, « messomi in ispalla il motore » lo portò con se per poi rivenderlo per 1.200 franchi a un abitante di Capo Corso, paesello dove attraccarono alle 2.00 di notte, appena sbarcato. La mattina seguente si recò a Bastia dove salpò per Marsiglia. Prima di arruolarsi con le milizie rosse lavorò qualche giorno come scaricatore merci e poi si imbarcò, dopo aver preso contatti con una cellula sovversiva francese, su un piroscafo spagnolo diretto a Barcellona. Gli spagnoli lo inviarono ad Albacete, gli consegnarono le armi e poi, dopo un mese di addestramento, fu condotto sulla linea di combattimento della ‘Brigata Garibaldi’. Il 24 settembre 1938 la Brigata si ritirò e dopo qualche mese di permanenza a Torello, vicino Barcellona, quando la ‘Spagna Rossa’ fu definitivamente sconfitta, scappò in Francia nel febbraio del 1939. Tuttavia fu immediatamente arrestato e internato fino a quando, iniziate le ostilità con la Germania, gli fu proposto se volesse arruolarsi nella legione straniera o nella compagnia di lavoro per aiutare la Francia, ma Cardenti rifiutò qualsiasi posizione: così fu internato nel campo di Vernet D’Ariege fino al giorno del rimpatrio per intercessione della Commissione Italiana d’Armistizio. Poi, incalzato dalle domande, confermò di conoscere il compaesano Puccini e di sapere che egli possedeva una barca di circa quattro metri ma, come prevedibile, si dichiarò estraneo al furto del natante, giudicando « un caso fortuito » la coincidenza cronologica della sua partenza con quella dei militari. Inoltre, si dichiarò coraggiosamente, forse perché non poteva confutarlo, ostile al fascismo e di essersi recato in Spagna proprio per un forte sentimento di simpatia per i ‘rossi’ « dei quali auspicavo la vittoria ». E’ ovvio che Cardenti, per cercare di migliorare la sua posizione, preferì mentire. Infatti nel Dopoguerra confessò che le indagini delle autorità corrisposero più o meno al vero e che i confinati, conosciuti proprio nella caserma, riuscirono a fuggire grazie all’aiuto del personale della cucina che li lasciarono uscire per poi scavalcare, forse con l’aiuto di una cima, il muraglione esterno.x Eppure il dettaglio più rilevante di queste dichiarazioni postume, che corregge la versione della Prefettura fu che, forse per facilitare la fuga dei confinati, i quattro salparono non dalla spiaggia di Capoliveri ma dal pontile di Portoferraio; e questo aumenta la difficoltà dell’impresa per il semplice motivo che, a differenza di una sperduta spiaggia, la darsena era ben presidiata e uscire dal porto senza farsi scovare non era affatto una passeggiata di salute. Cardenti si mise al timone di una piccola imbarcazione nella quale aveva nascosto precedentemente il fuoribordo, mentre gli altri erano riusciti a portare un po’ di acqua e del carburante. Il marinaio riuscì al buio a manovrare la barca fuori dal porto e puntare la Corsica ad ovest. Nonostante il mare agitato nel canale di Corsica e la fine della benzina a poche miglia dall’arrivo, a remi giunsero dopo una notte e un giorno di navigazione fino a Bastia, dove si diressero al locale Commissariato dove le autorità francesi, ben disposte, li aiutarono a raggiungere la Spagna perché il loro intento e unico fine era quello di arruolarsi e offrire il proprio contributo alla causa antifascista. Durante le battaglie i quattro si persero di vista: Boretti rimase ucciso vicino Madrid, Mazzetti fu ferito, Giovanardi, ricorda il Cardenti, lo ritrovò in uno dei campi di internamento che frequentò.
Francesco Puccini restò a Capoliveri e non poté evitare la condanna di dicembre: due anni e mezzo per simulazione di reato e concorso in diserzione qualificata. Lui in precedenza era già emigrato in Corsica, precisamente nel luglio del 1933 assieme a tre giovani elbani, tuttavia, dopo averli aiutati in terra francese, rientrò quasi subito all’Elba e pagò con 6 mesi di carcere la sua emigrazione clandestina. Non fu l’unica condanna che il Pretore di Portoferraio gli inflisse: minaccia a mano armata, bestemmia ed atti contrari alla pubblica decenza tutti reati commessi in quegli anni. Uscito di prigione, si calmò per qualche mese in attesa degli eventi che intanto stavano precipitando. Nel 1943 le circostanze fecero presagire il peggio, le città venivano bombardate e il governo non riusciva a fronteggiare la situazione e fu sommerso di critiche: tutti i sovversivi si rianimarono, anche all’Elba. Nel mese di giugno i CC.RR. di Capoliveri rinvennero per le vie di Capoliveri due scritte sovversive. La prima era sovrapposta a un manifesto della Prefettura che richiamava l’attenzione dei genitori di stare allerta affinché i loro bambini non raccogliessero alcun oggetto da terra, in particolare matite o penne stilografiche, secondo i fascisti dei vili e camuffati ‘esplosivi’ lanciati dal nemico angloamericano. In questo manifesto il sovversivo ha sovrapposto, con una metafora abbastanza chiara, una scritta che invitava invece i cittadini di Capoliveri ad aprire gli occhi e riflettere se il contenuto del manifesto fosse vero: per l’anonimo ovviamente no. Nella seconda striscia di carta, affissa a un muro, la scritta « branco di pecore sbandate attenzione ! attenzione ai cordon ! »xii, seguito da una croce disegnata. I militari iniziarono le indagini che ben presto portarono al Puccini, antifascista schedato, pescatore, detto ‘il monchino’ perché a causa di un’infezione gli era stato amputato metà braccio sinistro. Appena uscito di prigione non aveva perso un attimo a manifestare in paese le sue idee avverse al Regime, sempre secondo i militari. Ma le prove che condussero a lui furono altre e venute a galla per mezzo delle solite delazioni e di altri interrogatori. Circa un mese prima il Puccini si trovava nell’esercizio commerciale di Andrea Baldetti, vignaiolo, quando la radio trasmise la raccomandazione espressa nei manifesti citati. In presenza di altri cinque testimoni, tutti interrogati, il Puccini si espresse con queste parole: « non è vero quello che trasmette la radio, è tutta propaganda contro gli americani ».xiii Uno dei presenti, Osvaldo Arduini, lo redarguì e lo minacciò di far prendere provvedimenti nei suoi riguardi. I militari, ai quali tutti confermarono l’accaduto, trassero la conclusione che la coincidenza temporale fra questo fatto e le strisce sovversive fossero una prova, unitamente ai precedenti del Puccini. Pertanto cominciarono a stringere le indagini verso la sua persona e vennero a conoscenza che il sovversivo, rivolgendosi con tono scherzoso ad alcuni fascisti del luogo, aveva paventato loro la possibilità che, nel caso in cui il fascismo fosse caduto, alcuni di loro sarebbero stati impiccati nell’albero sito nella piazza principale; episodio che i CC.RR. interpretarono come un’allusione al ‘cordon’ della seconda scritta. In base a ciò il Puccini venne condotto in caserma per essere interrogato. Il suo debole alibi — la notte del 6 giugno, quando furono apposte le scritte, si trovava a pescare — non fu sufficiente a scagionarlo perché fu sottoposto al saggio calligrafico che, nonostante il tentativo di alterare la sua scrittura, lo incriminò. Fu condotto in via cautelativa in carcere in attesa del processo. Dopo l’ennesima perquisizione della sua abitazione, fu rinvenuto un quaderno a righe e un libretto contenente inni sovversivi e una moneta russa e soprattutto una stecca di canna avvolta in uno straccio di lana entrambi macchiati di inchiostro. Prove schiaccianti che Puccini tentò ugualmente di giustificare, dichiarandone l’utilizzo per altri scopi. Fu l’ultimo atto di sovversivismo registrato a Capoliveri prima del 25 luglio 1943 e il Puccini si salvò da ulteriori anni di carcere, perché a seguito di questo episodio fu denunciato per ‘Disfattismo Politico’, reato molto grave per le leggi fasciste in vigore. Gli oggetti perquisiti nella casa del Puccini sono conservati presso l’Archivio di Stato di Livorno, compreso il quaderno del sovversivo con tutti i suoi appunti.
Dott. Enrico Manzi