Uno degli aspetti più studiati dell'Elba sono le miniere. Chi volesse essere tanto brav@ da scrivere un quadro completo su di esse, non avrebbe problemi di fonti. Gli studi geologici sono numerosi e completi, una messe che copre almeno gli ultimi tre secoli. Le vicende storiche sono state sviluppate sia nello specifico che inquadrandole in una storia generale dell'isola.
Eppure, come quando mi sono occupato della storia del turismo, anche in questo caso nelle narrazioni e gli studi delle cave ho trovato un senso di non detto. Nello specifico, il fattore umano del lavoro nelle miniere. Ovvero i cavatori stessi. Mi è sempre sembrato che, parlando di loro, lo si facesse quasi fossero una massa indistinta, sfocata. L'elemento accessorio nella storia delle miniere.
Solo dopo la chiusura gli operai sembrano essere emersi come persone ben definite, interessandosi alle loro vicende umane, raccogliendo le loro voci e testimonianze. In alcuni casi prendendo direttamente la parola, come nel caso di Filippo Boreali, autore del bel libro autobiografico “L'uomo della miniera” (Milano, 2013). Inevitabilmente questo privilegio è toccato alle ultime generazioni di protagonisti.
Quelle prima sono state condannate a essere dei senza voce, senza volto, senza consistenza. Spesso per ricordare le loro memorie occorre raccoglierle in forma indiretta proprio dalle ultime generazioni di cavatori, che di quelli del passato erano figli o nipoti. Non c'è altra alternativa, gli scritti storici ci parlano poco o nulla di loro. Perché quegli uomini erano condannati a non lasciare traccia di sé, essendo analfabeti o comunque poco acculturati per mettere su carta la loro vita. Capitava come un miracolo un Ezio Luperini, cavatore eccezionalmente colto, che fu anche sindaco di Capoliveri, e che degli operai poteva portare la voce nel suo “Tra i lavoratori dell'Elba 1900-1918” (Genova, 1972).
Invece chi quegli studi o documenti li scriveva apparteneva alla borghesia, e la vita della miniera la poteva solo raccontare a distanza siderale, non certo tra fango e sudore, al pari di chi sputava denti marci sulle coti. E guardandola da lontano è inevitabile che la condizione umana appaia sfocata, anche se lo si fa con le migliori intenzioni. E tra chi lo fece con esse c'è sicuramente Pietro Gori, borghese ma che stette sempre dalla parte degli ultimi. Eppure anche a leggere i suoi scritti c'è un senso di sfumato: i cavatori sono ritratti con amore ma ancora in forma di classe. E per di più il buon Pietro spesso eccede in una forte idealizzazione di loro. Ecco, quello che io invece cercherò di propormi è di vederli come esseri umani, quindi anche con le loro debolezze e difetti. Ovvero il modo migliore per umanizzarli.
Dunque, con questa serie di articoli (se non annoio, questo resta sempre inteso) vorrei provare a dare un corpo, quando è possibile una voce, un'anima a quei cavatori dimenticati. Cercare di raccontare anche questa volta il troppo spesso non detto su quelle vite. Perché le loro esistenze sono una storia straordinaria e (no, non esagero) un'epopea elbana. Non me ne vogliano gli elbani della parte occidentale, ma gli isolani del versante minerario e, per mezzo secolo circa di vita industriale, i portoferraiesi, hanno vissuto un'autentica epopea degli ultimi, che ha segnato la storia dell'isola. E talvolta quella nazionale: la loro coscienza di classe è sorta e si è fatta dirompente spesso prima di altre realtà italiane, e molte loro lotte hanno rappresentato momenti decisivi nella storia del proletariato tout court.
Non che massaie, contadini, levatrici, pastori, lavandaie, pescatori, servette, marinai, cavatori di granito e quant'altra umanità si trovi nell'Elba occidentale non abbia delle esistenze straordinarie. Basterebbe leggere una a caso delle Figurine marinesi di Umberto Mazzantini per rendersene conto. Ma sono appunto straordinarie nella loro individualità. Nel caso degli operai delle miniere e degli altiforni, oltre che dei singoli, si sente la bellezza di un'appartenenza condivisa, di una lotta per il benessere di una classe, una società e per quello che verrà dopo. Sono i singoli che parlano, ma spesso per dare corpo a un canto corale, inclusivo di ogni compagno. Una canzone popolare che ognuno canta con il suo stile, che come dice Francesco Guccini, “si può cantare a voce sguaiata quando sei in branco, per allegria, o la sussurri appena accennata se ti circonda la malinconia”.
Vorrei quindi provare a ribaltare l'inquadratura classica: non la miniera o gli altiforni come figura centrale e la massa operaia come comprimaria, ma gli operai come protagonisti e la miniera come elemento di sfondo. Che il viaggio cominci.
Andrea Galassi