Un ulteriore aspetto degli spostamenti dalla casa alla cava era il meteo. Ti devi svegliare le mattine d'inverno col buio, con una grecalata assassina, o sotto una pioggia gelida. Il sentiero, già reso infido dall'acqua, da percorrere con cautela, dato che il tizzo non lo puoi tenere acceso, con quella pioggia infame che scroscia giù dal cielo. E poi arrivi finalmente alla cavaccia. Con quel fango ferroso che ti abbranca le scarpe grosse come chele viscide. E lì speri con tutta l'anima che la pioggia cessi presto.
Perché se piove per ancora un'ora, suona la sirena. Prima forte, poi piano, poi forte e lungo. Fine della giornata lavorativa. Ti tocca rimettere le gambe in spalla, e rifarti il cammino dell'andata. E bestemmi per tutto il tragitto. Perché sai che quel giorno è buttato alle ortiche. Non intascherai neanche un centesimo.
Come chiamereste tutto questo? Sfruttamento? Schiavismo? No, lo chiamavano consolato.
Premetto subito che il racconto di poco sopra è solo una ricostruzione personale. Infatti nella mia ricerca di testimonianze, essendo esse fonte di figli e nipoti di quei cavatori che il consolato lo sperimentarono sulla loro pelle, ho trovato punti contraddittori. A chi è stato raccontato che se la giornata iniziava con la pioggia, il consolato scattava automaticamente e non ci si muoveva da casa; a chi invece risulta che in cava occorreva presentarsi comunque, perché nel frattempo poteva anche smettere di piovere. A chi il padre raccontava che quando iniziava a piovere il lavoro si interrompeva, a chi invece il genitore riferiva che comunque nell'ora di pioggia, prima del fischio di sirena, bisognava lavorare.
Non è da escludere che ci sia del vero un po' in tutte le versioni. Molto doveva dipendere da caporali e sorveglianti, che decidevano sul da farsi o l'entità della pioggia, a discrezione personale o consultandosi con i cavatori: se le condizioni erano ritenute opportune si decideva di lavorare, in caso contrario si dichiarava il consolato.
Molto dipendeva anche dal tempo storico: alcuni capoliveresi mi dicevano che di buon mattino i sorveglianti dovevano presentarsi in cava e comunicare per telefono in paese che le condizioni atmosferiche di Calamita o il Ginevro imponevano il consolato, evitando così agli operai la trasferta. Ma è evidente che in anni in cui il telefono era di là da venire e la trasmissione di una comunicazione era lenta e difficoltosa, le cose si complicavano.
Anche sul termine non ci sono identità di vedute. La maggioranza dice di non sapere da cosa deriva. Una parte afferma che così si chiamasse perché in passato una quota di salario veniva corrisposta, appunto come consolazione, e in seguito fosse tolta, lasciando però il nome. Qualcuno mi precisava addirittura la durata della pioggia (55 minuti) prima che scattasse, anche se onestamente dubito che i sorveglianti contassero i minuti col cronometro. Qualcun altro mi diceva che in passato il consolato corrispondesse a un terzo della paga ordinaria.
A quanto mi consta non esistono documenti storici che parlino di consolato. Posso quindi provare solo a darne una spiegazione, premettendo che è molto a tentoni. Il termine potrebbe riferirsi al significato antico del termine, cioè legge o trattato (riferito per esempio ai famosi Consolati del mare). Quindi potrebbe derivare da un'antica disposizione che regolava appunto il lavoro in miniera o la specifica dei giorni di pioggia.
Peraltro è molto difficile darne anche una collocazione temporale. Impossibile dire quando fu introdotto. Sappiamo che era in vigore nel primo scorcio del Novecento, almeno finché furono in uso i cottimi, forse addirittura fino agli anni '20, anche se è molto probabile che con l'impennata dell'estrazione degli anni '10, dovuta all'accelerazione industriale italiana e lo sforzo bellico del 1915-18, fosse una pratica sempre meno utilizzata.
Una notizia interessante ci viene da un certo Toso (“Appunti sui giacimenti ferriferi dell'isola d'Elba”, Roma, 1909): “Non si lavora nei giorni di festa, né quando piove, in media si lavora 280 giorni”. Il dato è importante, in quanto, stando all'autore, i cavatori non lavoravano per circa tre mesi l'anno, ben un quarto. Va tenuto presente che molti erano cottimisti, e negli ultimi anni dell'Ottocento solo poche categorie erano riuscite a strappare (a costo di dure lotte e scioperi) un salario fisso: per esempio chi faceva lavori di scavo e sterratura. Le paghe giornaliere andavano da 1,80 a 2 lire per i salariati, e dalle 2,70 alle 3 lire per i cottimisti. I primi lavoravano 6 ore quotidiane, mentre i secondi potevano arrivare alle 9 o 10 ore.
Ma salario fisso fino agli inizi del Novecento non significava mensilità fissa: il salario era fisso in base alle giornate lavorative. Non si lavorava, non si riscuoteva. Questo significa che per tre mesi non si vedeva la paga. Ovviamente non erano tre mesi continui, ma nel computo totale dell'anno doveva essere pur sempre un sacrificio economico.
Il consolato però non era l'unico ricatto dei padroni delle miniere. Un altro, forse il più infame, lo vedremo nei prossimi due capitoli.
Andrea Galassi