Le testimonianze dell'ultima generazione di operai sono concordi: le loro condizioni lavorative non sono neanche lontamente paragonabili a quelle, durissime, dei loro padri o, ancor peggio, nonni. Tuttavia anche il dopoguerra mostra una gestione dalla faccia poco amichevole.
Dal 1939 la gestione delle miniere era passata alla Ferromin, società del gruppo Finsider, a sua volta facente parte del colosso pubblico Iri (Istituto di ricostruzione industriale). Erano quindi finiti gli anni delle gestioni private. Questo mitigò molto lo scontro di classe: a parte la parentesi fascista, che mise il silenziatore alle condizioni degli operai, nel democratico dopoguerra non si visse più il periodo dei grandi scioperi del periodo 1880-1920. Con le uniche eccezioni per quelli delle chiusure: nell'immediato dopoguerra degli altiforni, e alla fine degli anni '70 delle miniere.
Questo non vuol dire che la gestione pubblica (fino al 1970 della Ferromin, dal 1970 al 1980 dell'Italsider, anch'essa del gruppo Finsider) fosse rose e fiori per i lavoratori e non avvenissero agitazioni. La lotta per i miglioramenti delle condizioni lavorative fu costante per tutta l'età repubblicana. E non mancarono forme di assunzioni/capestro, quali i subappalti.
La gestione del dopoguerra si caratterizzò infatti per lavori minerari subappaltati a ditte esterne private (come la Sales o la Perona e Siet) o cooperative. I lavoratori si dividevano quindi in dipendenti della società concessionaria, con contratti fissi e da parastatali, e i cosiddetti “avventizi”, i dipendenti delle ditte subappaltanti con contratti privati e part-time. L'operaio capoliverese Pietro Arduini, che faceva parte della cooperativa Ferrigna, riferisce a Tiziana Noce (“Voci di vita elbana”, Livorno, 2003, pag. 124): “quando gli [alla società concessionaria] mancavano gli operai li avevano cercati questi avventizi nelle cooperative e le cooperative gli fornivano gli operai che volevano, insomma, e quelli che erano disoccupati si iscrivevano nella cooperativa, la cooperativa teneva conto di quello che aveva fatto uno in un mese, dieci giorni, quindici giorni e facevano la rotazione, nella cooperativa veniva fatta questa rotazione per far lavorare un po' tutti”.
Oltre che come un lavoro precario, quello degli operai delle ditte subappaltanti viene ricordato come un impiego con pochi diritti. A questo proposito Elvio Diversi riferisce alla stessa Noce (pag. 128): “A questi di queste ditte se tentavano di organizzarsi nel sindacato li licenziavano immediatamente. E così ti facevano fare ore e ore di straordinario al giorno, lavoravano quindici, sedici ore al giorno”. La cosa mi è stata confermata da ruspisti e camionisti che questa situazione la vissero direttamente. Mi dicevano che gli orari erano stabiliti per contratto, ma non erano rari gli straordinari, talvolta piuttosto lunghi, fino anche a tarda sera, giustificati da una scusa o l'altra. E anche le coperture sindacali erano mal tollerate. Il malumore di questi lavoratori era spesso quello di non godere di protezioni, acuito anche dal fatto che le ditte erano pronte a dare il benservito ai dissenzienti, licenziandoli senza troppi complimenti.
Enio Becherini, ruspista della Sales, mi diceva che qualche lotta veniva anche fatta, spesso per ottenere semplici cose, come usufruire del servizio di pullman per il trasporto in miniera, diritto che era appannaggio solo dei lavoratori della Ferromin, ma le concessioni erano strappate con molta fatica. Anche il diritto di essere pagati ogni mese poteva essere un lusso, perché talvolta si riscuoteva con grossi ritardi. Inoltre alcune festività erano loro negate: per esempio gli operai Ferromin non lavoravano il 4 dicembre, il giorno di santa Barbara, mentre loro sì. Alcuni benefit che la Ferromin passava ai suoi dipendenti, erano a loro negati.
Puntando essenzialmente al profitto, spesso l'escavazione affidata alle ditte era poco accurata, in quanto nel tonnellaggio del prodotto, c'era anche molto sterile (cioè pietrame inservibile) mischiato al minerale ferroso di buona qualità. Anche questo me lo confermavano i ruspisti e i camionisti, ma lo ricorda efficacemente Diversi nella bella raccolta di testimonianze citata, di Tiziana Noce (pag. 116): “Mentre che prima facevamo a mano – quindi guai se tu nel vagone dove c'era il minerale ci mettevi lo sterile, ti facevano anche la multa, ti facevano scaricare il vagone e te lo facevano ricaricare – invece questi delle ditte andavano co' la motopala e caricavano tutto. Com'erano pagati questi? Ogni camion – non andavano più coi vagoni andavano coi camion – e ogni camion che portavano di minerale gliene pagavano quattro, cinque di sterile e allora in quel minerale ci mettevano di tutto, e quelli non l'andavano a controllare. Siccome io gli ultimi vent'anni che ho lavorato in miniera facevo l'analista chimico, lo so come usava questa cosa, perché il tenore del ferro, non poteva essere superiore al 40%. A questo punto diventava venti, venticinque, e chi te lo comprava più?”
Essendo due tipi di contratti diversi, quindi con salari e trattamenti lavorativi differenti, e mancando quasi del tutto le protezioni sindacali nei confronti degli avventizi, è evidente che si creava un rapporto asimmetrico tra gli effettivi della Ferromin e i lavoratori delle ditte subappaltanti. E questo creava malumori. A differenza del passato, quando si arrivava a dissidi spesso estremi, tra operai e lavoratori coatti che abbiamo visto nel capitolo precedente, in questo caso l'importanza mediatrice dei sindacati portava a lotte comuni per parificare i diritti di tutti gli operai. Così, ancora a costo di dure lotte e scioperi, si arrivò a costringere l'Italsider ad abbandonare la formula dei subappalti.
Fu uno dei più grandi successi del proletariato elbano del dopoguerra, che riuscì anche a integrare tutti gli ex lavoratori delle ditte nell'organico dell'Italsider. L'ultimo decennio permise così a tutti i cavatori di avere pari diritti, stipendi, contributi per la pensione. Purtroppo fu una vittoria effimera, perché di lì a pochi anni il governo mise la pietra tombale sulla storia mineraria elbana.
Andrea Galassi