Come abbiamo visto da un paio di aneddoti che ho disseminato nei capitoli precedenti, i nostri eroi riuscivano a scherzare sulle loro sofferenze e privazioni. D'altra parte il carattere gretto e “gnorante” degli elbanacci è un marchio di fabbrica dell'essere isolani, piaccia o non piaccia.
Quello della cava, pur nella sua durezza, era anche un luogo di scherzo e sollazzo. Non poteva essere altrimenti, dovendoci passare gran parte della giornata, insieme a compagni di fatica che quasi diventavano una famiglia. Essendo un ambiente totalmente maschile gli scherzi potevano essere anche grevi: me ne hanno raccontato qualcuno che avveniva in luoghi pericolosi, come la galleria del Ginevro o i nastri trasportatori, quindi a rischio di incidente grave. Tuttavia erano rari, e ogni cavatore era responsabilizzato che oltre una certa misura non si poteva andare, per non mettere in pericolo l'incolumità di un compagno.
I momenti di baia erano soprattutto sul pullman, all'andata o al ritorno del lavoro, e nella pausa pranzo. Questo era ovviamente un buon momento di convivialità, e le battute fioccavano. Stiamo parlando di persone perlopiù di bassa istruzione, quindi non possiamo aspettarci argomenti di alta filosofia. Ed essendo, come detto, tutti uomini, molte battute che mi hanno raccontato, oggi verrebbero giustanente stigmatizzate come omofobe e sessiste. Quindi glissiamo.
Venivano intavolate anche discussioni serie, soprattutto politiche. Essendo un ambiente dove il vino scorreva, e non poco, talvolta alcuni potevano andare sopra le righe. Enrico Gelsi, meccanico dell'officina di Calamita, mi raccontava alcuni di questi episodi. Quando lui, che da ragazzo era stato emigrato in Australia, cercava di dissentire, veniva zittito con l'immancabile battuta: “So' affondate tante navi, o 'un poteva affondà anco la tua!”
Sono molti gli aneddoti comici sui cavatori che si tramandano. E come ho fatto notare, raccontandone uno nel capitolo precedente, viene il sospetto che molti siano più belle trovate che realtà. O meglio, magari partivano da episodi reali, ma per venire arricchiti, come avviene spesso nel passaparola e il pettegolezzo, fino a diventare esagerati, se non addirittura surreali. In questo caso eccone uno a cui assegno la palma di migliore.
Un cavatore capoliverese era al lavoro all'Innamorata. Decide di passare dalla strada bassa, che dal paese scende a Morcone e prosegue lungo costa fino all'arrivo. Parte, come era uso allora, la mattina prestissimo, intorno alle 5. Giunto alla spiaggia di Pareti, essendo una mattinata molto buia, non si avvede di entrare in mare. E qui siamo già in pieno surreale. Ma non è finita. Quando l'acqua gli arriva al polpaccio (secondo un'altra versione, anche più su: ma al surreale c'è un limite), esclama: “Gezzu, ma quant'è piovuto stanotte!?”
Forse però lo scherzo più bello è il seguente, che io personalmente preferisco per due ragioni: prima, se non è vero, è almeno di intelligente invenzione; seconda, ha il parroco di Capoliveri, don Michele Albertolli, come complice. Se non addirittura come ispiratore: mica c'è da stupirsene, con quei bei tomi di preti che giravano all'Elba un secolo fa.
Un giorno in miniera danno a intendere a un sempliciotto di essere nato dopo il figlio. “Se 'un ci credi”, gli dicono, rispondendo alle sue rimostranze, “quando torni, stasera, vallo a chiede' a don Michele”. E così fa. Don Michele lo fa entrare in canonica e ascolta i dubbi del nostro. Quindi si avvicina a una scansia, prende un registro (a caso, tanto il cavatore non sa mica leggere) e lo sfoglia, fingendo di compulsarlo. A un tratto, mette il dito su una pagina, e dice trionfante: “Domattina torna da' tu' compagni e digli che hai ragione. Sei nato prima te del tu' figliolo! Di pochi giorni, eh, ma 'ssi nato prima te!”
Quando mi raccontavano queste lepidezze, mostravo scetticismo per l'implausibilità delle storie. Un anziano però mi disse una cosa che fa riflettere: “Non dimenticarti mai che stiamo parlando di persone che si firmavano così”, e faceva col dito il segno della X sul palmo dell'altra mano. È verissimo. Per questa schiuma della terra (i nostri nonni: chi lo dimenticasse, peste lo colga) c'erano solo la sopravvivenza, i bisogni primari. Queste erano le cose concrete, da farci i conti ogni giorno, che ti sbattevano la drammatica realtà in faccia.
Il sapere libresco, le considerazioni sulla vita e la morte, erano ubbie buone per chi aveva i soldi e la cultura. Quindi valevano giusto una risata.
Andrea Galassi