Per le società riese e capoliverese (in misura minore longonese) la via di un'esistenza legata alla miniera era spesso obbligata. Fino all'avanzato dopoguerra, i giovani dell'Elba orientale non potevano contare sulle magre entrate finanziarie della famiglia per puntare a studi superiori, per non dire quelli universitari, che avrebbero permesso loro di elevare la classe sociale. Il turismo, poi, all'Elba era ancora una parola aliena. Così non restava che la cavaccia.
L'entrata come lavoratori in essa avveniva prestissimo, praticamente alla fine delle elementari, spesso neanche conseguendone la licenza: ho testimonianze di undicenni già al lavoro. Ovviamente i primi lavori erano quelli più leggeri o di apprendistato, ma ciò non toglie che la giornata fosse assorbita da essi, che lo spazio di condivisione con i coetanei dovesse essere sacrificato, che dovessero sorbirsi, esattamente come gli adulti, le levatacce alle 5, i rientri a buio e i chilometri a piedi. Il pagamento era a cottimo, spesso il più infimo di tutti: ma era comunque un'altra entrata nei bilanci famigliari. Nei giorni lavorativi andavano a letto presto, ma nei festivi potevano divertirsi un po', come i loro coetanei borghesi, tirare tardi la sera per i locali dei paesi, che anche un secolo fa (forse addirittura più di oggi) offrivano diversi svaghi e socialità.
Uno dei mestieri più assegnati ai giovanissimi era quello di acquajuolo: i ragazzi guidavano un asino caricato di brocche ai cantieri, per portare l'acqua ai cavatori, vitale soprattutto quando il sole estivo prosciugava energie. In passato avevano anche una sottomansione di carrettai: anche in questo caso portavano un asino, però caricato di coffe, in cui veniva messo il minerale. Facevano quindi la spola tra la cava e il punto d'imbarco. Quando in miniera furono installati i binari, i ragazzi un po' più grandicelli e di buona forza, potevano fare i carrettai, spingendo i pesanti carrelli fino alle tramogge.
L'impiego dei ragazzini in miniera era consistente: da una statistica sappiamo che nel 1871 sono occupati nelle cave 478 uomini e 82 ragazzi sotto i 15 anni, quindi circa il 15%. Era quasi sempre il padre che introduceva il figlio al lavoro. Prima del 1911 esisteva anche una formula, il diritto di piazza. Spiega Ugo Spadoni (“Capitalismo industriale e movimento operaio a Livorno e all'isola d'Elba 1880-1913”, Firenze, 1978, pag. 354 in nota): “Il 'diritto di piazza', cioè di cedere il proprio posto fisso ad un altro operaio, con una corrispondente tangente (se il prescelto non era un familiare), era rivendicato dai minatori, che richiamandosi alle ricordate prerogative loro accordate dai granduchi toscani ritenevano che la cessione alla Società del proprio pezzo di terra implicasse, fra gli altri, anche questo diritto. Qualche minatore aveva ottenuto il riconoscimento anche a più di una 'piazza'”.
L'abolizione di questo “diritto” fu tra i motivi di rivendicazione dei minatori nel celeberrimo sciopero del 1911. La società Elba ne voleva la cancellazione, e non volle sentire ragioni per tutta la durata dell'agitazione. Tuttavia, nelle trattative avviate nell'agosto, concedeva agli operai la possibilità di assumere il figlio (superiore ai 16 anni) di vedove di cavatori morti sul lavoro. La sconfitta dello sciopero sancì quindi la fine del diritto di piazza.
L'ambizione dei giovani era quella di diventare sorvegliante, che gli anziani spesso pronunciano sosvegliante, e nella forma spregiativa di caporale. Ovviamente non subito: ci volevano alcuni anni, e presumibilmente non pochi puntelli in direzione. Era il mestiere più ambito in cava, come quello di capoposto, in pratica il responsabile di un cantiere o il supervisore di certe operazioni minerarie. Era chiaramente gratificato da un bello stipendio, ma concerneva non poche responsabilità. Se mancava ai suoi doveri poteva essere passibile di pesanti multe. Molti lo dovevano svolgere con inflessibilità o comunque atteggiamenti poco graditi ai cavatori, dato che si hanno notizie di scioperi, che riguardavano a volte singoli cantieri, per chiedere i licenziamenti di alcuni di loro.
Vivendo quasi un'intera vita in cava, una cosa interessante è l'influenza che aveva per questi uomini il gergo minerario sulla vita di tutti i giorni. Sarebbe troppo lungo analizzare tutti i vernacoli paesani derivati da esso. Ma su qualcuno val la pena soffermarsi. Per esempio il verbo appezzà, ovvero fare a pezzi, che deriva dall'operazione dell'appezzatura, il ridurre i grossi massi di minerale in sassi di modesta consistenza. Molto bello è il termine guaglione, che non ha niente a che vedere col corrispettivo partenopeo. Si tratta infatti della zappa bidente. Il termine deriva dall'operazione di guagliatura (per meglio dire vagliatura), cioè quella che si faceva in diversi campi per separare il buono dallo scarto. Nel capoliverese comune entra così il termine sguaglia, nel significato di pettine, proprio per la forma dello strumento a denti, simile a un rastrello, usato per la vagliatura. E, sempre nel capoliverese, gli uomini che ogni giorno portavano gli stracci da lavoro, quando nei giorni di festa potevano mettersi l'abito migliore, quasi come una nuova pelle, non potevano che chiamarlo mutatura.
Entrando quasi tutti in miniera giovanissimi, uscivano da essa a volte con quasi 50 anni di servizio, con un fisico sfiancato (o vogliamo dir meglio, all'elbana? e diciamolo: stiantato, cioncato) da quello che oggi potremmo definire con eufemismo “lavoro usurante”. E lo troviamo ancora, il corpo, che ritorna nell'epica. Un corpo che gli ultimi vedevano deperire, farsi cadente, corroso da quel fango ferroso, segnato da cicatrici. Per esso i segni della vecchiaia arrivavano prestissimo. A vedere la foto di un cavatore trentenne, oggi lo diremmo un uomo di mezza età.
Eppure sono stati la meglio gioventù, perché come vedremo nei capitoli conclusivi, è su quelle spalle che poggia la società attuale: la fortuna turistica che viviamo oggi si fonda in gran parte sulla fatica di dare un benessere ai figli e i nipoti. Nel bene e nel male.
Andrea Galassi