Nella miniera di Rio Albano si nota subito un traliccio abbandonato, svettante sui gradoni rossastri, ricolonizzati dalla macchia. Sembra una croce votiva. Mi sembra l'atto più misericordioso che il tempo ha concesso come memento a tutti quegli ultimi che le cave elbane hanno maciullato nel loro “sviluppo”.
Quando una burrasca lo abbatterà, come il mare ha già fatto con il pontile di Vigneria, allora capiremo che dei protagonisti di un'epopea elbana non resterà più niente.
Perché tanto pessimismo? Soprattutto per una ragione, che si può definire, pasolinianamente, antropologica.
Per secoli i dannati della miniera hanno vissuto un'epoca che potremmo chiamare della sopravvivenza: la loro vita era fatta di bisogni essenziali e necessari. È esattamente quella che ho messo al centro di quest'epica, con il corpo degli ultimi e le loro scelte sacrificanti a parlare in prima persona, perché si capisse bene da chi discendevamo e cosa stavamo perdendo di vista. Con l'avvento del turismo, la società elbana è entrata nell'epoca della ricchezza: la centralità non era più la sopravvivenza, ma il superfluo. Questa svolta epocale è avvenuta in pochissimi anni, facendoci passare a velocità formidabile, prima che ce ne rendessimo conto, da una società all'altra. La nuova società era totalmente diversa dalla prima e, nonostante le fosse figlia e la sua fortuna poggiasse sulle spalle della precedente, l'ha subito avvertita come estranea. È stato questo il primo segnale di una rottura del cordone ombelicale.
Di questa rottura mi sono reso conto nel corso degli anni in cui ho maturato la ricerca da cui è nata questa epica. Non ho mai incontrato un cavatore che si sia sottratto al ricordo delle miniere, con passione. La stessa passione che ho trovato in alcuni figli e nipoti di cavatori, ma non tutti. Molti, che pure hanno avuto come padri e nonni figure di primo piano nella vita di miniera, non avevano alcuna testimonianza di loro. Queste nuove generazioni avevano la percezione della precedente epoca come di altro. Un qualcosa di alieno, arcaico. Niente a che fare con le nostre radici.
Questo senso di altro ricalca quello che già rilevavo nel primo capitolo: la visuale dall'alto, fuori fuoco, che avevano i borghesi che guardavano alla vita degli ultimi. In questo caso le ragioni erano di classe sociale, in quei due mondi in cui l'uno, minoritario ed elitario, vedeva l'altro a distanza. Oggi il motivo riguarda una storicizzazione nel senso deteriore del termine. I cavatori attengono a un passato morto e sepolto, e poco importa che la terra di sepoltura sia ancora fresca. È un passato da mettere in disparte. Magari da raccontare, sì, ma quasi fosse una leggenda del tempo che fu, che lascia il tempo che trova. La storia dei cavatori: un argomento come un altro. Perché per una società irrimediabilmente borghesizzata, in cui, per citare una brutta canzone, tutti vogliono viaggiare in prima, gli ultimi sono qualcosa da spingere ancora più in fondo. Persino nel ricordo. Persino se sono stati nostri nonni.
Il genocidio culturale non ha del tutto travolto i cavatori, solo perché alcuni di loro sono ancora tra noi, e non possono portare loro via l'ultima testimonianza. Ma non c'è dubbio che sparito il ricordo dell'ultimo degli ultimi, sarà fatto strame anche dell'ultima memoria. E per gli elbani, sempre più a loro agio nella condizione di senza passato povero, anche il mestiere di cavatore dileguerà in qualcosa di indefinito, buono tutt'al più per qualche appassionato di storia. Come gli operai degli altiforni, le ragazze dei casini, i tonnarotti, le lavandaie, i lavoratori delle saline, le levatrici, i carbonai, i pastori... Come tutti quei fuochi di san Giovanni, riti ancestrali, moresche, tradizioni contadine, scampagnate tra il sacro e il profano, canti, ricorrenze...
Così, quando l'Elba fa i conti con le sue miniere, non può che omologarle ad attrazione. E la “valorizzazione” di esse spesso arriva a trasformarle in una sorta di Disneyland naturalistica, dove l'elemento umano, chi su quei gradoni ci ha lasciato sangue e sudore, ammesso che venga citato, è solo l'accessorio folcloristico. È il turismo, bellezza, e tu non ci puoi fare niente!, direbbe un Humphrey Bogart de noantri. Così su ogni motore di ricerca della rete alle parole “miniere dell'elba” è associato il risultato riguardante il cartolinesco lago rosso delle Conche, non la fatica e i rischi che sono costati la sua escavazione. Così chi visita la galleria del Ginevro prova “l'emozione di entrare nelle viscere della terra”, senza pensare a quello che realmente provarono le centinaia di operai che in quella tomba ci dovevano entrare da vivi.
Di contro, è rischioso anche l'effetto contrario: quello di fare un monumento degli ultimi. Sia esso materiale, che immateriale come una rievocazione, che può pericolosamente farli apparire come mero folclore storico. Ricordarli, fissarci nella mente che sono le nostre radici, non significa mitizzarli o eroicizzarli come qualcosa di perfetto o appartenente a un'età dell'oro, pur nella sua povertà. Erano donne e uomini, con difetti e debolezze, e le loro vicende erano in chiaro e scuro, come ogni episodio storico. Credo che in quella che comunque ho voluto intitolare epica, tutto questo sia stato evidenziato. Altrimenti il rischio, per parafrasare un'altra canzone, questa volta molto bella di Francesco de Gregori, è di farne un monumento per dimenticarli un po' più in fretta.
E allora, resisti almeno tu, caro traliccio arrugginito e modellato dal tempo. Tu che rimani l'espressione più genuina dell'epica degli ultimi.
p.s. Grazie a tutt* per avermi fatto compagnia in questo viaggio.
Andrea Galassi
E, anche a nome deio nostri lettori, siamo noi a ringraziare Andrea per questo conciso ma denso, documentato ed emozionante racconto della "storia delle classi subalterne all'isola d'Elba, articolato in 15 capitoli che magari sarebbe giusto raccogliere in un unico volume, ma che intanto i nostri letttori potranno consultare singolarmente nel nostro archivio
La Redazione