Completo il report della intensa tre giorni ferajese:
M'ha fatto proprio bene venì a sciacquà i panni in Darsena. Peccato che prima di ripartire, dopo il mio solito giro al cimitero dei Neri, dai Bianchi non ce l'ho fatta per mancanza di tempo, d'altra parte noi Donati siamo dei Neri (e vorrei vedè), mi scuseranno i miei amici Arnaldo, Vittorino, Sigarino, Marcello, Anselmo, Mino, Domenico, Giancarlo, Marcello, Nando, Vasco, Stefano... ci vorrebbe un libro solo per citarli tutti, peccato dicevo, che sono andato a fare un giretto anche in via Porta Nuova, dove fino al 2014 e per cinquantuno anni c'è stata la Lavanderia “Sole” inaugurata nel 1963 dal mi povero babbo (in realtà per i primi 25 anni era in via dell'Amore, qualche numero civico più in dietro), dove ora al suo posto c'è il bel negozio di antichità di Franca e di Sandro Moncini e dove però c'è anche il palazzo che prima ospitava la caserma dei Carabinieri, che ora non so chi ospiti, ma che pare un pezzo dell'archeologia industriale, un residuo delle vecchie fabbriche siderurgiche dell'Europa dell'Est, che ha almeno un tubo, sicuramente non di acqua sorgiva, rotto, che nell'insieme avrebbe bisogno di essere ristrutturato e destinato ad un uso più consono ai tempi attuali, dato che ha un bellissimo affaccio sulla nostra Darsena Medicea.
Peccato che sono andato anche al mio amato Grigolo, in realtà ne sono contentissimo, se non altro perchè non ci ho trovato nessuno e così ho potuto reimmergermi nel suo magico passato che penso di aver espresso nel racconto su di esso e sulla storica sezione di Portoferraio della Lega Navale Italiana, che l'anno scorso, ho pubblicato a puntate su Elbareport.
La mia iniziale ferita al cuore e il mio totale sconcerto sono arrivati dal constatare il degrado e l'abbandono di quel posto,che per me non è solo bello, ma poi, complice la poesia dei ricordi, ieri vissuti al massimo perchè in colpleta solitudine, consolato dal fascino ispiritatore delle pene di cuore e memore dello spettacolo di due giorni prima, mi sono ancora più convinto che si siamo vergognosi e fuori dal tempo, ma pure “Portoferaiesi ciolli “con un nostro proprio fascino poetico e romantico.
La grande gioia, la definitiva consolazione, per certi versi ancora più penosa della vista di quel completo abbandono, mi è comunque arrivata dopo, una volta raggiunta la parte degli scogli invasa da una fitta giungla di agavi, "pitte" e di piante di Fico d'India che ai miei tempi non erano così numerose.
In lontananza, guardando verso la punta della Madonnina, dietro quelle piante mi era sembrato di scorgere una A e una M dipinte in bianco su quella parete di roccia scura, all'altezza di quello che una volta chiamavamo il fortino del pianerottolo. Mi sono arrampicato a fatica fino a lì, pur con tanta ruggine alle giunture, pur con qualche chilo di troppo, pur con i riflessi dell'arrampicatore che mi sono sempre mancati, pur con una cappa residua dei fumi alcolici delle due sere precedenti e pur privo di machete.
Il sospetto iniziale ora era verità! Ero sul luogo di sepoltura del mitico Lampo I°, il leggendario cane subacqueo del mi babbo del quale ho parlato anche nel mio racconto sul Grigolo dell'anno scorso che prima ho citato. Gaetano per il suo fedelissimo amico volle una cerimonia degna di un Faraone egizio e la scritta Lampo a caretteri cubitali che si potesse leggere anche dal mare. Manca qualche lettera che non ha resistito al trascorrere di quasi quarant'anni, ma il resto di quel nome rimane lì, pur coperto dalle foglie delle tante piante di Fico d'India.
In conclusione questa grandiosa immersione insulare (direbbero quelli che hanno fatto le "scuole alte") in quello spirito quasi del tutto perduto, è terminata a puntino con un invito a pranzo, condiviso con immenso piacere con la instancabile leganavalista Lorena Provenzali, a casa di Sergio Rossi detto Tardò (patronimico di famiglia) che io considero uno dei più preziosi custodi della nostra cultura popolare, perchè (anche se "imbastardito" di sangue materno marcianese, anzi patresaio) sprizza ferajesità vissuta da tutti i pori.
Il rustico menù prevedeva pasta co' l'acciughe, sauté ("nzuppetta" che si capisce meglio) di vongole, aglio e carota, e una strepitosa crostata agli agrumi di Gianna, la mamma di Lorena
E ciucciando l'ultima vongola prima di lasciare lo scoglio, mettendo insieme le impressioni positive e quelle negative raccolte, e valutando che la nostalgica commozione non compensava del tutto lo stato di abbandono, in qualche caso ed angolo vergognoso, in cui versa la mia città, m'è venuta la sintesi:
“I nostri amministratori, anderebbero affettuosamente un po' sarchiati!”
Michel Donati