Caro direttore,
ieri (30 maggio) è morto lo scrittore italiano di lingua slovena Boris Pahor che, il prossimo 26 agosto, avrebbe compiuto 109 anni.
Pahor ha vissuto subendo il fascismo, i lager nazisti e il comunismo jugoslavo.
Desidero ricordarlo qui perché, anni fa, alcuni studenti elbani hanno avuto la possibilità di sentire e leggere le sue parole.
In un incontro con gli studenti toscani a Firenze, il sopravvissuto ai lager nazisti raccontò le violenze contro gli sloveni da parte dei fascisti: “Avevo sette anni quando, insieme alla mia sorellina che ne aveva quattro vidi dare alle fiamme a Trieste la casa della cultura slovena e altri edifici vicini. Era il 1920. Lì il fascismo è arrivato prima, è il fascismo “barbaro”, avallato e incitato da Mussolini e coincide con il razzismo antislavo. Inizia così la cancellazione di una minoranza. Vengono chiuse le scuole slovene, proibiti giornali e libri, italianizzati i nostri nomi e cognomi. Noi scompariamo, non ci siamo più. Dal giornale “Il popolo d’Italia” veniamo definiti cimici, perché come le cimici siamo un popolo senza nazionalità. E Mussolini dà l’ordine di far fuori tutti i maschi di questa ‘genia’”.
Qualche anno più tardi, con l'Istituto storico della resistenza e di storia contemporanea di Livorno, visitammo il lager di Natzweiler-Struthof in Francia, dove Pahor fu prigioniero e di cui ha parlato in “Necropoli”. Il campo fu aperto dai nazisti nel 1941e accolse soprattutto detenuti polacchi, sovietici e tedeschi. Vi furono rinchiusi più di 50 mila deportati, soprattutto oppositori politici e partigiani. Fu luogo di lavoro forzato nelle cave di granito rosa, e sito di sperimentazioni mediche dell’università di Strasburgo. Vi morirono più di 20 mila deportati. Struthof oggi ospita il Centro europeo del resistente deportato, che costituisce un passaggio fondamentale della visita al campo.
Vale la pena ricordare, in particolare in questa fase storica, che la pubblicazione della sua opera incontrò molti ostacoli. In Italia, ad esempio, il manoscritto inviato a Primo Levi non fu mai recapitato: in quegli anni non era conveniente pubblicare in italiano un autore sloveno. Contemporaneamente, nella Jugoslavia socialista le sue opere venivano condannate e messe all’indice per la critica al regime di Tito.
Pahor ha dato un significativo contributo alla memoria collettiva e soprattutto ha incontrato, anche con sacrificio personale, tantissimi giovani per testimoniare l'orrore e indicare scelte costruttive.
Nunzio Marotti