Caro Sergio,
leggendo il tuo A Sciambere su Libertaria e sulla sua osteria mi è venuto in mente un episodio dimenticato della mia ormai lontanissima adolescenza che, se mi permetti, vorrei raccontarti.
Eccolo:
Avevo 14 anni e la mi’ mamma, dato che ero bravo a scuola, che lei voleva un figliolo bancario, che il mi’ zio Pezzettino (allora uno degli uomini più ricchi di Portoferraio) le aveva detto che ci metteva una parola buona per farmi assumere al Monte dei Paschi di Siena, fregandosene del suggerimento apposto sulla mia eccezionale pagella di terza media (tutti 10 e un 4 in latino) di mandarmi al liceo scientifico, spese i soldi della borsa di studio che mi avevano dato per iscrivermi a Ragioneria, dove la mia carriera scolastica durò fino a dicembre, prima di venire espulso in eterno.
Intanto, però, frequentavo fin da subito più la Linguella e il Grigolo che la scuola in Salita Napoleone, dove con Poggioli e altri ripetenti con i quali mi ero subito imbrancato facevamo moie alcooliche e ci annoiavamo tra la Torre di Passanante e la due volte che bucano le mura di Portoferraio per portare al mare. Durante una di queste moie, con lo stomaco in subbuglio per il vino cattivo che avevamo bevuto quasi a digiuno, passammo davanti all’Osteria da Libertaria che ci guardava dalla soglia mentre arrivavamo dalla Linguella, verso Mezzogiorno e con una fame da lupi come ce l’hanno solo i ragazzetti. Ci contammo gli spiccioli in tasca e ci demmo il coraggio di entrare in quella trattoria che tutti sapevamo essere un ritrovo di anarchici e comunisti e nella quale, però, nessun professore o babbo o mamma ci sarebbe mai venuti a cercare.
Libertaria, già anziana, mi squadrò con particolare attenzione e, non senza una certa mia preoccupazione, e mi continuò a guardare attentamente e con una traccia di sorriso tra il compiaciuto e stupefatto stampato sulla faccia. Poi ci portò da mangiare quel che avevamo ordinato (che non mi ricordo cosa fosse, ma che mi ricordo che era buono) che, nonostante l’età, annaffiammo con un altro litrozzo di vino che lei ci servì senza battere ciglio.
Quando avemmo finito di mangiare in quattro pattoni la pietanza e fatta la scarpetta col sugo, mentre sparecchiava, Libertaria mi squadrò ancora più attentamente di prima e poi mi chiese: «Ma dimmi un po’, te se il figliolo di Veleno dei Tarantini?».
«Sì», articolai io intimidito. E libertaria mi tirò su dalla sedia e mi avvolse in un soffice abbraccio che sapeva di sugo di pesce ben fatto. Poi mi stampò due baci sulle gote, si asciugò un lacrimuccia traditrice e mi lasciò lì, stupefatto di fronte ai miei compagni di moia ancora più stupefatti, per ritornare quasi subito con un vassoio di zeri marinati e un altro di acciughe e altro vino e pane per tutti.
Fece un brindisi agli anarchici che non c’erano più, raccattò dagli altri i quattro spiccioli che avevano e da me non volle niente ma mi disse: «Velenino, quando vuoi mangiare vieni, per te è sempre aperto e sempre gratis».
Io guadagnai un sacco di punti tra quella banda di lucignoli (nessuno dei quali sarebbe arrivato al diploma) e ritornai solo una volta a mangiare da Libertaria perché mi metteva in imbarazzo non pagare e ancor di più i suoi abbracci e i baci.
Non ho mai scoperto perché volesse così tanto bene al mi’ babbo da riconoscerlo in me, non gliel’ho mai chiesto perché a quell’età a volte si è davvero dei coglioni e lei non me lo disse perché a quell’età ci sono segreti da custodire. L’unica cosa della quale si accertò e che fossi almeno comunista.
A quell’osteria ci tornai qualche anno dopo, con una ragazza, e Libertaria, ormai vecchia, non mi riconobbe o fece finta di farlo, forse offesa che non mi fossi più fatto vedere o forse per discrezione e una punta di gelosia senile per fantasmi passati. Ma alla fine mi fece un bello sconto e, forse, mentre uscivo, riconobbe di nuovo Veleno nei miei e nei suoi occhi.
Umberto Mazzantini