Mi sento di riproporre questo breve racconto tratto da “Tre api d’oro” di Giuseppe Conti da dedicare “Alle morti innocenti di tutte le guerre”.
Paolo Ferruzzi
Isola d’Elba – Portoferraio – 16 settembre 1943
“…Calava inesorabile la notte del 16 settembre 1943, un buio pauroso gravava su tutto ed anche il quadrante dell’orologio sulla facciata del municipio era spento come gli altri due giù al porto; ferme le lancette sull’ora del bombardamento: le 11,27…. anche <Tomaia> era partito da Marina di Campo, quel tardo pomeriggio, preoccupato della mancanza di notizie del figlio che prestava servizio di leva al Comando Marina di Portoferraio e si incamminò a piedi. La strada sterrata, polverosa, è lunga, c’è la pianura e la salita, alberi vari e molti lecci lassù alla Lamaia; ma nel piano fino alla Pila campi bruciati dal sole, l’erba oramai secca che attende l’autunno per riprendersi; le viti verdi di pampini, l’odore del mosto che viene dalle cantine. Traversi Procchio e poi la strada comincia a salire a tornanti fino alla chiesetta dove si scorgono i tre laghi formati dai profili delle punte Enfola compresa. Passa Giannino col barroccio ed il suo Nello sudato sotto stanghe, carico di erba verde per le bestie. “ Volete un passaggio? Salite” e ferma un attimo il suo ronzino. Tomaia sale e non si fa pregare. Incontrano due militari. Hanno il volto della disfatta. Ormai è la resa e anche l’Elba sembra accusarla… sono mitraglieri del 108 fanteria. Hanno perduto i collegamenti, tutti scappati. “ E voi” chiedono rivolti a Tomaia che vedono scuro in volto. “Cerco mio figlio, vado a Portoferraio, laggiù dove c’è la Capitaneria”. “ Hanno bombardato duro questa mattina” continuano i militari : “hanno anche mitragliato la popolazione nelle strade”. Tacquero tutti mentre la strada continuava a salire mentre il sole va giù verso la Corsica ed in cielo le nubi si sfumano di contorni rossi. I soldati scendono, guardano verso la macchia alta sopra il Capannone. Poco dopo scende anche Tomaia per riprendere a piedi il suo cammino. Di buon passo prese la via del Capannone e giunse all’inizio della discesa, cominciava a farsi buio; la fretta di arrivare, i mille pensieri nella testa, l’aiutavano ad ingannare la fatica. Tutti quei tornanti, con le curve a secco, la solitudine del paesaggio, la strada in costa e sotto certi punti lo strapiombo, quel credere di essere alla fine al di là dell’ultima curva. “ Guido è troppo onesto perché abbia abbandonato il suo posto alla Capitaneria. Non può essere fuggito! Devo far presto a riportarlo a casa”. Bivio Boni, in pianura ancora due chilometri, lo Stabilimento ILVA abbandonato dagli operai, solo il guardiano al cancello come sempre. Silenzio cupo, i primi lampioni con i fili elettrici per terra, abbattuti, camminare sopra cocci e vetri venuti giù dalle finestre… Poi sassi , mattoni, calcinacci, negozi sventrati, le saracinesche rigonfie in fuori, dentro il luccichio degli specchi, le bottiglie ancora intatte negli scaffali. Odore di polvere nell’aria, di cordite, di tritolo esploso.
Tomaia arrancava, scansava la barriera di macerie. Passò per il Mercato Vecchio e attraverso la porta di via dell’Amore giunse al cancello del Comando Marina. Nessuno. Il Corpo di guardia abbandonato e barche e motoscafi ormeggiati silenziosi. Tomaia tornò in via dell’Amore e prese la direzione della piazza ai Giardinetti.: cercava qualcuno, aveva bisogno di informazioni. Uno spiraglio di luce filtrava dalla Misericordia; si diresse in quel punto. Li scorse subito, gonfi tutti allineati e si precipitò all’interno trattenendo il respiro. Lo trovò sul fondo, vicino all’angolo e ci si buttò sopra; fuori di se, disperato, crollava tutto un castello di speranze. Gli altri si avvicinarono per confortarlo, poi si tennero in disparte muti, commossi, per quel rispetto ch’è dovuto al genitore colpito nel profondo. Singhiozzava Tomaia parlando a voce alta e diceva cose dolci al figlio e aspre all’indirizzo di tutti, a cercare le colpe di quelli che erano stati causa di questa voluta inutile tragedia. Dovettero toglierlo da quella impossibile posizione, tanto che i suoi indumenti risultarono imbrattati dalla polvere di calcinaccio e di sangue per il contatto con la divisa da marinaio del figlio. Era stato tolto dalle macerie del palazzo venuto giù lungo la Calata mentre con gli altri cercava di raggiungere il rifugio più vicino. Avevano scavato; soldati, civili volontari, Vigili del Fuoco, per tirare fuori tutti, gli altri avrebbero ripreso il lavoro all’indomani, per toglierli tutti da sotto. Tomaia si precipitò fuori, ricordò che dietro il Duomo c’erano di stazione, incatenati alle ruote, i carretti dei facchini del porto. In un attimo raggiunse il posto e strappando la catenella, con furia, s’impossessò di un carretto. Gli uomini di guardia non si opposero, quando sollevando delicatamente il corpo del figlio uscì dall’androne e lo depose con cura sul pianale assicurandolo tra le due sponde. Poi silenziosamente riprese la via del ritorno spingendo avanti il carretto che sorreggeva sulle due stanghe. Traversò la Porta pedonale e vide il cielo entrare in piazza Cavour dal grande squarcio prodotto sul palazzo dall’esplosione; solo l’arco era rimasto intatto. Camminava e quel suono che si trascinava dietro era l’unica sua compagnia assieme a quel fagotto inerte ormai avvolto nel nulla; solo fatto di affetto e di ricordi. Si lasciava alle spalle lo Stabilimento, poi da Flaminio, la zona di Carpani e continuare così. Nessun incontro, solo qualche gatto e qualche cane che traversavano la strada pieni anch’essi di mille paure. Gli occhi oramai senza più lacrime vuoti e fissi in avanti con quel gran peso sul cuore, duro da sopportare e fare appello a tutte le forze per far ritorno laggiù al paese nella casa ormai sconvolta trascinare chilometri e chilometri: ancora 22 sarebbero stati alla fine. Bivio Boni, mute le valli a destra e nere le colline. La salita ormai vicina e più scoraggiante del Capannone. Fermarsi un attimo per tirare su suo figlio, e assicurarlo con una cordicella sotto le ascelle alle stanghe per non farlo scivolare dal fondo del carretto. Puntando un piede dopo l’altro curvo con i muscoli tesi nello spasimo poi sulla cima fermarsi sfinito seduto sul colonnino che segna il limitare dei chilometri per Procchio. Riprendere per quel chilometro pianeggiante fino alla Lamaia; la strada qui si immerge nel verde pieno di curve, è macchia mediterranea, rigogliosa e ti accompagna fino a Procchio. A Procchio qualche finestra delle case lungo la strada si aprì, delle voci chiesero cosa era successo e dopo qualche frettolosa spiegazione qualcuna scese a dare una mano. Non era più solo Tomaia ; altri corsero in bicicletta a dare l’avviso fino alla Pila. Il giorno era ormai fatto mentre il corteo traversò la Pila e s’ingrossava a vista d’occhio; in molti volevano sostituirsi a quell’uomo affranto, sfinito; ma egli rifiutava di abbandonare le stanghe. Alla curva della Bonalaccia c’era la popolazione di Marina di campo che attendeva; avanti i bimbi e le ragazze, tutti coi mazzetti di fiori in mano mentre il corteo si svolgeva: Fiori nelle mani che ben presto furono deposti sul corpo del ragazzo e il carretto ne fu ricoperto. Fiori che si colgono spontanei nei campi o nell’aiuole dei giardini privati del paese che assumono ben altro valore di quelli che si coltivano nelle serre. Forse questo fu il più mesto ma vero funerale dedicato dall’Elba alle sue vittime senza alcun drappo né bandiera abbrunata né truppa schierata a presentare le armi…”. (leggermente ridotto nel formato attuale).