Prosegue nella sua missione di ricostruzione della vita che fu, con protagonisti i suoi parenti. Racconti mirabili, con dialoghi in rigoroso dialetto secchetano di quei tempi. Stavolta è lo zio Luigi, nella sua gioventù, il protagonista che ora è ultranovantenne. Anche io ho avuto il piacere di conoscerlo nel 1976. Adriano, il nostro scrittore asciutto, maestro in pensione, maratoneta e poeta, descrive alla perfezione e nei minimi dettagli, la vita povera del passato lontana 70 anni, quando il cibo in famiglia era scarso: qualche pomodoro, poche uova, fagioli e pane raffermo. Per fare una colazione, Luigi coccolato dalla mamma, gioisce per la chance di avere il lusso di mangiare due biscotti. Mangia dopo aver ucciso con le sue mani un falco maldestro, che torna utile per fare un brodo. Tutto serviva, niente andava sprecato perché poco c'era. Siamo ai primi anni 50 del 900, nella zona occidentale dell'isola e come nel resto del cosiddetto Scoglio, la vita era dura. Era semplice e fatta di sacrifici continui, di lavoro senza orario giorno e notte, in particolare per chi era impegnato alla fornace nei pressi di Fetovaia, producendo e lavorando i “toccoli” ricavati dalle piastre di calcare messe nel forno. In quel modo anche la povera gente riusciva a farsi casa con le proprie mani e a pagare quando poteva quel materiale. Ma c'era anche la forza di scherzare e di farsi risate a crepapelle, nell'estenuante lavoro. Oggi nessuno di noi ce la farebbe a vivere in quel modo, se per caso si raggiungessero quei tempi lontani, con la DeLorean di "Ritorno al futuro".
Stefano Bramanti
IL MAGAZZINO
Il 1948 non andava meglio del compagno che lo aveva preceduto e all’Isola d’Elba la crisi economica del dopoguerra si faceva sentire più che nel resto della nazione. Per molte famiglie era difficile mettere d’accordo il pranzo con la cena; chi aveva un po’ aveva abbastanza, chi non aveva nulla, tribolava dalla mattina alla sera e andava a letto a stomaco vuoto. Lo stomaco di Luigi Pierulivo, apparteneva a un diciottenne affamato di cibo e di vita; brontolava tutte le notti ed era un miracolo che il brontolio non svegliasse gli altri componenti della famiglia. Quella mattina il magazzino (1) dove viveva la famiglia Pierulivo, a mezza costa della zona nord di Vallebuia, era immerso nella penombra e nel silenzio, anche se il calore e l’umidità della stagione estiva, penetravano dalla porta lasciata aperta. Luigi si svegliò con un grido, come se si fosse fermato al centro di un incubo. La sera prima aveva perso la conta con Oreste, il fratello maggiore. Lo sconfitto doveva rimanere in cantina ad aiutare Giacomo, il padre. Il Vecchio. Gira e rigira, più ci pensava e più credeva di essere stato fregato. Aveva detto pari, ma era venuto dispari, anche se lui ricordava di avere contato sei dita. Non aveva fatto in tempo a protestare che quell’altro era sparito e andato chissà dove. Così gli era toccato rimanere con il Vecchio a travasare e lavare damigiane, per evitare che il vino nero avanzato dalla botte, prendesse l’aceto. Quando ce la fece a infilarsi nel letto, ben dopo la mezzanotte, era stanco morto e l’idea di doversi alzare presto per andare a tragge’ (2) fascine (3) per la fornace di Fetovaia, gli impediva di prendere sonno. Anche il materasso non lo aiutava. Era un vecchio saccone a righe bianche e rosse, ripieno di foglie di granturco e ogni volta che si girava, sembrava di sentire qualcuno che camminava sul ghiaino. Ora, si era svegliato di soprassalto e, con la coda dell’occhio pìolo (4), aveva visto muoversi la tendina che nascondeva gli scatoloni di cartone pieni di vestiti sulla sponda del vecchio palmento. «Ci dev’esse’ (5) un topo…». E soffocò il primo improperio della mattinata. S’alzò e si diresse verso la porta aperta.
Inutile perdere tempo a cercare il topo. «Mi’ (6) che c’è già il sole alto. Perché ‘umm’hanno (7) svegliato?». Questa volta la parolaccia esplose, a sottolineare la gravità della situazione, volò in alto e si infilò nella cortina di scirocco che velava l’astro. Luigi uscì sulla piazzetta, lastricata con grossolane bozze di granito e sormontata da quattro pilastri irregolari, anch’essi di granodiorite. Tra un pilastro e l’altro, un tappeto di canne sorreggeva la pergola di felci. Il ragazzo lanciò un’occhiata alla campagna e si diresse verso il gabinetto, messo all’inizio della discesa che portava alla stalla. Il gabinetto consisteva di un manufatto in muratura di un metro per ottanta centimetri. Una tenda ottenuta da una balla di patate, garantiva la privacy. Dentro, sopra una pedana rialzata e murata a calcina, un tappo di granito rimovibile con un gancio metallico a cui era collegato un fil di ferro, copriva la «buca» dello scarico che si apriva poi sul pozzo nero. Il liquame prodotto veniva poi utilizzato nei campi come concime. A volte, qualche foglio di giornale inchiodato al muro e un secchio arrugginito di alluminio, pieno a metà d’acqua del fosso, da utilizzare per fare sparire la puzza, completavano l’arredamento della toilette. Una vera e propria latrina, gelata nei mesi invernali e assalita dalle mosche e dai tafani in quelli estivi. Luigi stava per uscire, quando s’acquattò dietro la tenda. Gli era sembrato di vedere un’ombra che volteggiava davanti allo sgabuzzino. Con grande cautela, mise la testa fuori e lo vide: era un falco che volava a cerchi concentrici, con un’ ellissi sempre più stretta, sopra il buscione (8) che delimitava il vigneto.
Improvvisamente il rapace si fermò e dopo un attimo di stallo, si lanciò in picchiata verso il centro della pianta spinosa. Luigi non fece in tempo a pensare che mormorò tra sé e sé: «Vòi vede’ (9) che...». Senza perdere tempo, si diresse verso il buscione e lanciò un’occhiata tra le «lame» (10). Il cacciatore era rimasto incastrato. Muoveva a mala pena le ali, ma non andava né su, né giù. Il ragazzo, d’istinto infilò la mano tra le foglie e tirò su di tutto: il rapace sbigottito e un paio di rametti spinosi del buscione. Incurante degli artigli dell’uccello, del becco e dei ramoscelli spinosi, Luigi utilizzò la mano libera per tirare il collo al pennuto. Il falco cercò di opporre una qualche resistenza, ma non ci fu nulla da fare. L’ultima cosa che vide, nella sua breve vita terrena, fu la coda del saettone (11), la sua preda, infilarsi nel muro a sassi della vigna. Un classico caso di cacciatore cacciato. Assunta Spinetti, la mamma di Luigi, detta la Vecchia, risaliva il viottolo che veniva dall’orto e dal pollaio. In mano teneva una vecchia paniera sfilacciata. Dentro c’erano alcune pumate (12) mature e una coppia d’ove (13). Poca roba, ma bisognava contentarsi, dati i tempi.
Luigi alzò un braccio, scuotendolo, per mostrare il suo trofeo. La Vecchia sollevò la paniera per fargli vedere le pumate di cui lui era ghiotto. I loro sguardi si incontrarono e si sorrisero: lo stesso colore caldo, marrone. Lo sguardo di Assunta era più di una carezza, era amore di mamma. Lo stesso amore che le aveva impedito di svegliare il figlio, dopo che lui si era lamentato per tutta la notte. Su quello sguardo materno, Luigi appoggiò tutta la fatica futura di una giornata che si
annunciava a bollore: sotto il sole, alla fornace. Il suo sorriso scese dagli occhi e si allargò alle gote, al mento e alla bocca, trasfigurandogli il viso. «Dallo a me che ci faccio il brodo per il Vecchio e vieni dentro a fa’ (14) colazione...». Assunta prese il falco e si avviò verso il magazzino, con il figlio dietro di qualche passo. Quando Luigi si sedette su una delle seggiole spagliate, sul vecchio tavolo di marmo la faceva da padrone un piatto con cinque o forse sei michette di sommadura (15).
Luigi lanciò un’occhiata disperata alla mamma che capì al volo. La donna andò verso la madia, alzò il canovaccio e prese un paio di biscotti che mise nel piatto del figlio. Questa volta il conto tornava: le michette erano sette. Tutti e quattro i figli della Vecchia soffrivano di fame atavica, ma questo li batteva tutti; si sarebbe mangiato anche le cantonate del tavolino. Assunta bagnò appena le michette e ci strofinò sopra un paio di pumate, tra quelle più mature. D’olio, manco a parlarne. La guerra era finita da un pezzo, ma alcuni generi di prima necessità rimanevano ancora sconosciuti per gli strati più poveri della popolazione elbana. Andava già bene che i Pierulivo riuscissero a farsi un po’ di pane con il grano che coltivavano nell’Ombrìa (16). Del grano non si buttava nulla. La famiglia di Luigi, come altre famiglie di Vallebuia, portava a macinare il grano a Marina di Campo, in località Pian di Mezzo, dove c’era un grande mulino ad acqua, gestito da un mugnaio di San Piero. Accanto al mulino era stato scavato un «buttaccio», una specie di vasca che riceveva l’acqua del fosso e che aveva una capienza di 200/300 quintali. Dentro la vasca, girava una grande ruota. Il grano veniva macinato. Poi, con uno staccio (17) o un crivello (18) si stacciava (19). La parte stacciata (20) era farina bianca, di prima scelta. Nel setaccio rimaneva il semolino, molto più scuro rispetto alla farina. A questo punto non rimaneva che utilizzare uno staccio a maglie più larghe e iniziare l’ultima stacciata. Il semolino per impastare il pane di sommadura veniva così raccolto nelle balle e nel setaccio rimaneva solo la semola, buona solo per essere compattata con l’acqua e data alle galline e al maiale, nel raro caso che ve ne fosse uno, sotto forma di pastone. «Anco (21) se una volta zia Marietta provò a impasta’ (22) la semola per facci (23) il pane», sogghignò Assunta mentre guardava Luigi che ripuliva il piatto con l’ultimo biscotto rimasto. «E ce la fece a fallo? (24)», chiese il ragazzo, incuriosito. «Macché, tutto tempo perso». «Come quello che ho perso io stamane», aggiunse Luigi alzandosi. Prese gli scarponi da lavoro, quelli mezzo sfondati e che davano vento agli alluci. Li legò con uno spago e se li mise a tracolla. Non poteva permettersi il lusso di consumarli nel tragitto per andare alla fornace. Le scarpe buone, quelle che indossava la domenica pomeriggio per andare a San Piero a ballare, rimasero sulla sponda del palmento, insieme agli zoccoli improvvisati che si era costruito con le proprie mani, utilizzando due tavolette tenute ferme dagli scordiccioli (25), specie di lacci vegetali irrobustiti con lo spago e il fil di ferro. Luigi salutò la Vecchia e prese per la discesa. Per raggiungere Le Piastre (26) avrebbe impiegato tre quarti d’ora buoni e chissà cosa gli avrebbero detto gli altri Pierulivo vedendolo arrivare così in ritardo.
Dopo pochi minuti era già a La Cavallina (27), la zona dove si apriva la vallata su Seccheto e il suo mare. Sovrappensiero percorreva lo stretto sentiero quando, a metà di una curva, quasi si scontrò con due ragazze ingobbite che cercavano di riempire una «balletta» (28) con l’erba da dare poi ai conigli. La più grande impugnava un falcetto con il quale tagliava l’erba. L’altra, raccoglieva l’erba tagliata e la metteva nel sacco. Quando lo videro, la prima non si scompose e lo salutò con un cenno del capo. La più giovane, una ragazzotta, sembrò che avesse visto il diavolo. Gli dette un’occhiata furente e, mollando baracca e burattini, corse ad rimpiattarsi in un vicino boschetto di mucchi (29) e scope (30). A Luigi non era sfuggito il falco, figuriamoci se si fece scappare quell’occhiata furibonda. Registrò tutto: occhi di brace, capelli neri, ricci, carnagione scura. «Dev’esse’ selvatica...», pensò il ragazzo, cercando di capire dove si fosse infilata. Sembrava svanita nel nulla e lui, dopo aver guardato di qua e di là, decise di proseguire per non accumulare altro ritardo. Tuttavia, un tarlo cominciò a roderlo da dentro. «È sempre giovincella, ma è già bella ora. Come si chiama? Ce l’ho sulla punta della lingua...ecco: Mirella, la figliola più giovane del macellaio.
Chissà…». Mentre elucubrava, fantasticando sulle varie possibilità future, una ditata presa con l’alluce sinistro lo riportò bruscamente alla realtà. Era a metà de La Calle (31) e il sole picchiava duro. Gli mancavano ancora una ventina di minuti per arrivare a destinazione. Soffiò sulla ferita per cercare di lenire il dolore e riprese il cammino. Zoppicava dal piede sinistro e da sotto l’unghia scoperchiata, il sangue colava e bagnava la rùcia (32) del viottolo.
(continua...)
Adriano Pierulivo
La seconda parte del racconto sarà pubblicata nell'edizione di domenica 26 giugno.
LEGENDA
MAGAZZINO (1) = Stanza a pian terreno, provvista di tino e palmento, ma adibita ad abitazione
TRAGGE’ (2) = Trasportare oggetti da un luogo ad un altro
FASCINE (3) = Arbusti secchi e affastellati, atti alla combustione
OCCHIO PÌOLO (4) = Occhio semiaperto, assonnato
DEV’ESSE’ (5) = Deve essere
MÌ (6) = Guarda
‘UMM’HANNO (7) = Non mi hanno
BUSCIONE (8) = Cespuglio di rovi
VEDE’ (9) = Vedere
LAME (10) = Rami spinosi del rovo
SAETTONE (11)= Colubro di Esculapio, serpente innocuo
PUMATE (12) = Pomodori
COPPIA D’OVE (13) = Coppia d’uova
FA’ (14) = Fare
SOMMADURA (15) = Pane di grano scuro fatto a biscotto
OMBRIA (16) = Località ad ovest di Vallebuia
STACCIO (17) = Vaglio
CRIVELLO (18) = Vaglio a maglie più larghe
STACCIAVA (19) = Vagliava
STACCIATA (20) = Vagliata
ANCO (21) = Ancora
IMPASTA’ (22) = Impastare
FACCI (23) = Farci
FALLO (24) = Farlo
SCORDICCIOLI (25) = Legacci di cuoio o altri materiali delle scarpe
LE PIASTRE (26) = Località ad ovest di Fetovaia
LA CAVALLINA (27) = Località a nord di Seccheto e a sud di Vallebuia
BALLETTA (28) = Grande e robusta pezzola di cotone colorato, a quadri, multiuso (veniva utilizzata come gli attuali sacchetti di plastica)
MUCCHI (29) = Cisti, rosa e bianchi
SCOPE (30) = Eriche
LA CALLE (31) = Località tra Seccheto e Fetovaia
RUCIA (32) = L’insieme delle foglie, cadute spontaneamente dalle piante di varie specie nella macchia.