LA FORNACE
La fornace de Le Piastre, sulle pendici del monte Agaciaccio, rimase attiva almeno fino a metà degli anni ‘50. Si trovava su uno strapiombo, a metà strada tra il mare e il sentiero che collegava Fetovaia e il Comune di Campo nell’Elba con Pomonte. Il sentiero era percorso solo da qualche contadino che con il somaro trasportava prodotti della campagna o materiale necessario alla vita di tutti i giorni nella piccola comunità pomontinca e chiessese. Sotto lo strapiombo, il mare si incupiva intorno alla Grotta Infrarossa, in alto, l’odore penetrante dei corbezzoli e del rosmarino ammansiva le giornate funestate dallo scirocco. A sinistra, cupa e minacciosa, incombeva la Punta de Le Tombe (1), a destra, protesa verso sud est, si allungava la Punta di Fetovaia. All’attacco della Punta di sud est, la cava di Piatti di Fetovaia, piccole formazioni di calcare a piastra,, forniva il materiale da cuocere dentro la fornace. La cava era di proprietà di Pierulivo Antonio, fratello maggiore del Vecchio, un vallebuiese D.O.C. Qui siamo alla presenza di un personaggio singolare. Antonio era un gran lavoratore e di mestiere faceva il contadino, ma il dopoguerra era duro e le bocche da sfamare tante. Quindi, iniziò ad arrangiarsi con mille altri lavoretti. Se la cavava con la costruzione dei muri a secco e, all’occorrenza, riusciva a tirare su una casa, inventandosi, un po’ come tutti, muratore e carpentiere. Da qui l’urgenza di avere la calce in tempi brevi. Acquistò così la cava e prese in concessione la fornace. Gli abitanti dei paesini dell’Elba sud occidentale avevano adesso la possibilità di poter costruire le proprie abitazioni con una spesa abbordabile per acquistare quel materiale di pronto uso. Chiunque, pagando una cifra pattuita, poteva andare a farsi la calce da solo.
Agli altri ci pensava Antonio, aiutato dai figli Giacomino e Marino. Chi non poteva pagare sul momento, otteneva credito sulla parola. Avrebbe pagato come e quando avrebbe potuto. Spesso, Antonio spariva, lasciando il lavoro della fornace in mano ai nipoti e ai figli. A una certa ora del pomeriggio, diventava uccel di bosco, asserendo di andare a comprare la «buetta» (2) del tabacco da mettere nella pippa (3). I ragazzi rimanevano da soli e lo rivedevano il giorno dopo, ma nessuno ebbe mai l’ardire di chiedergli dove fosse stato. Forse, doveva finire di zappare la vigna, curare l’orto, occuparsi della carbonaia sulla montagna, tirare su qualche nuovo muro, o magari, riposarsi all’ombra di un gelso o presso una fonte d’acqua fresca. Non era semplice ottenere la calce. Si poteva fare solo d’estate e le condizioni climatiche erano sempre impietose, peggiorate dal calore che emanava la fornace e dalla pessima attrezzatura di cui erano forniti i giovani Pierulivo.
Dovevano traggere le piastre estratte dalla cava con una vecchia carretta dalle ruote di legno, su un percorso accidentato. Il pericolo di ferirsi mani e piedi era tangibile. Intorno alla fornace vi erano campi di grano e vigneti. Rimaneva libero solo un piccolo spiazzo per le manovre di caricamento e per tenare di dormire durante la notte. Uno spiazzo a bollore. Per raccogliere e trasportare le fascine di scopa, mucchio ed èrbitro (4), dovevano recarsi presso il Monte Còccaro (5), a qualche centinaio di metri di distanza. Se le caricavano sulle spalle e le portavano alla fornace. Per cuocere un’infornata di 30/40 quintali di piastra, servivano tre giorni e tre notti ed erano necessari turni di guardia di due ore a testa perché la fornace doveva essere alimentata con continuità, pena il crollo anticipato delle piastre e la distruzione del lavoro fatto. Allora sì, che sarebbero partiti i moccoli.
Per completare il lavoro, a volte non bastavano 3.000 fascine. Ciò significa che dovevano trasportarne almeno 750 a testa. Chilometri e chilometri percorsi nella macchia, con le dita dei piedi che uscivano dalle scarpe sfondate e il sudore che colava a fontana da ogni parte della testa. Quando le piastre erano in numero sufficiente e c’erano abbastanza fascine par dare il via all’alimentazione, le pietre venivano «involtate», veniva costruita una volta cilindrica contornata di pietre. Sotto, a sorreggerla, le fascine. La fornace doveva essere continuamente imboccata, un po’ come la locomotiva nei vecchi treni a carbone. Le pietre, cotte per tre giorni e tre notti, non si sfaldavano, ma diventavano più soffici. Quando la volta barava (6) si formavano i toccoli (7), ovvero piccole porzioni di calce. Dalla bocca della fornace, venivano catturati con una pala e messi in capienti ceste, caricate su asini, muli e cavalli. Ogni destinatario avrebbe poi provveduto a far sciogliere i toccoli nell’acqua per qualche giorno. Bastava scavare qualche buca e, con una gora (8), riempirla con l’acqua di un fosso A quel punto, una calcina di buona qualità, era pronta per essere impastata e usata per qualsiasi tipo di costruzione. L’unico conforto per i Pierulivo della fornace, era dato dall’arrivo di Bionda, Domenichina e Gela, tre delle figlie di Antonio che, improvvisatesi vivandiere, portavano pranzo e cena. Pranzo e cena non propriamente luculliani. Spesso si trattava di un po’ di sommadura bagnata, accompagnata da patate bollite e fagioli. Non rimaneva che l’immaginazione e pensare che quelle patate e qui fagioli potessero trasformarsi in aragoste, polpi e murene. Luigi, sotto il sole cocente era ormai prossimo alla meta, mentre arrancava sulle strettoie della salita di Fetovaia, proprio sopra il Canaletto (9). Era preoccupato per l’alluce «schioppolato» (10) e continuava a pensare a quella strana ragazzotta che aveva incontrato a La Cavallina. Pensava anche che era la seconda estate di fila che passava ad arrostirsi per estinguere il debito paterno (il Vecchio doveva rendere la spesa per la calcina presa per costruirsi la casa, con ore lavorative) e che del falco catturato non avrebbe assaggiato nemmeno la pelle. Per tre giorni sarebbe rimasto impiombato a Le Piastre. Una voce minacciosa bloccò il suo ondeggiante ragionamento: «Ti pare questa l’ora d’ariva’?» (11) Un’ombra gli si parò davanti. Era Oreste. Con le mani sui fianchi, sembrava Mussolini. Sulla spianata, Giacomino e Marino ridacchiavano e assentivano con la testa.
Luigi rispose con una domanda: «Zio ‘un (12) c’è?» Il fratello maggiore abbozzò: «Ha dato foco (13) alla fornace ed è partito con il somaro. Aveva da fa’. Tornerà domani mattina. Noi ora famo (14) il conto. Uno rimane alla fornace e gli altri tre vanno a fa’ le fascine». «Sì, ma conta’(15), conto io», rispose Luigi, memore della sera prima. Fu così che Giacomino rimase di guardia alla cottura e gli altri tre, mozzi mozzi (16), si avviarono verso il Còccaro. Arrivati nel fosso, Oreste disse: «Ti dovemo (17) fa’ vede’ una cosa». Prese per la macchia e gli altri dietro. Arrivato dietro una cote, spostò un èrbitro e dalla rùcia sbucò un lungo rotolo di corda, lungo almeno 100 metri.
«L’ho trovato io…» disse Marino «mentre cercavo roba secca». «Ci potemo (18) fa’ una carrucola…» aggiunse Oreste, «…legamo (19) la fune a du’ (20) capi e famo una prova per trasporta’ le fascine. Se funziona, ci risparmiamo metà fatica». «Déh, per me, ummi (21) sembra il vero…», sospirò Luigi che pensava al povero alluce a cui avrebbe risparmiato un po’ di dolore, «ma la fune dev’esse’ di qualcuno. ‘Un la potemo miga (22) ruba’ (23)». «La fune? Mì (23 bis), secondo me ce l’hanno lasciata i soldati de La Guardiola (24) che se la sono dimenticata quando c’è stato lo sbarco e se la sono data a gambe. Magari gli serviva per recinta’ (25) o per trasporta’ (26) qualcosa e se la sono dimenticata. ‘Un ti preoccupa’ (27) che nessuno venirà (28) a protesta’ (29)». Rotti gli indugi, presero la fune e si dettero da fare. Legarono al tronco di un grosso leccio un capo della corda. L’altro capo fu fissato a un palo di ferro, più di cento metri più in basso. Per provare la rudimentale teleferica, riempirono una cesta di sassi, la legarono a un gancio scorrevole e dettero il via. L’ordigno micidiale, presa velocità, arrivò all’istante alla stazione d’arrivo. Si sganciò dalla fune e attraversò il viottolo, sibilando davanti al muso di un somaro che stava transitando in direzione di Pomonte, andandosi poi a schiantare nella scarpata sottostante. La bestia, presa alla sprovvista, scalciò un paio di volte, girò di poppa e partì a rotta di collo verso la discesa di Fetovaia.
Dietro, il proprietario del somaro, correva come un matto e urlava disperato: «Tè, viene (30) qui, tè, tè. Torna indietro, tè». I tre ragazzi si guardarono: l’esperimento era miseramente fallito, ma loro cominciarono a ridere a crepapelle, saltellando su due piedi e tenendosi la pancia. A un certo punto, Oreste iniziò a saltellare su un piede solo, ridendo e piangendo allo stesso tempo. Aveva appena preso una tremenda ditata contro un ceppo di scopa. Gli altri due dovettero sdraiarsi per terra per continuare a ridere e non farsela addosso. Quando si riebbero, ognuno di loro prese un paio di fascine e, caricandosele sulle spalle, iniziarono l’odioso viaggio di ritorno. A sera, dopo aver trangugiato il misero pasto di sommadura e patate, portato da Gela e Bionda, e avere bevuto dal fiasco la vinella (31) molto allungata con l’acqua, iniziarono a scherzare e a prendersi un po’ in giro. Facevano a chi le sparava più grosse. Era l’unico modo per non soccombere alla noia e alla malinconia. Luigi, nonostante le patate, si sentiva un gran buco nello stomaco e avrebbe dato chissà cosa per essere a casa a gustarsi il falco in brodo cucinato dalla Vecchia. La sera diventò notte e i ragazzi iniziarono a sbadigliare, per la fame e per la stanchezza. Dovevano stabilire i turni di guardia. Otto ore in tutto, due a testa, come i militari. I turni di guardia più ambiti erano il primo e l’ultimo, perché garantivano sei ore di sonno, sempre che non ci fosse stato qualche imprevisto o qualche scherzo messo in opera da chi non dormiva. «Famo il conto a chi tocca», disse Oreste. «Sì, ma anco stavolta conto io», Luigi si fece sentire, bello deciso. Le dita messe dai quattro furono contate e, nel chiarore della fornace, Luigi ebbe fortuna. Gli toccò il primo turno. Si mise intorno alla bocca incandescente e iniziò a imboccarla, stando ben attento a non farsi mai mancare le fascine. Il tempo non passava mai, ma in qualche modo riuscì a terminare il proprio turno senza intoppi. Svegliò il fratello, perché proseguisse nell’opera di guardia e si guardò intorno. Prese un paio di balle e tenendo le vecchie scarpe per non bruciarsi i piedi, cercò un posto per dormire, il più lontano possibile dalla bocca della fornace. Il terreno, ardeva. Era talmente stanco che si addormentò subito. Dopo un po’ iniziò a sognare. Era in un campo e inseguiva una lepre, ma quando stava per prenderla, la lepre si trasformava in quella ragazzotta, figlia del macellaio, che se la dava a gambe levate. Allora si fermava per prendere fiato e nascosto dietro un cespuglio trovava un cesto pieno di ogni ben di Dio: aragoste fumanti, pane bianco di un giorno, coniglio arrosto, frangette (32), strufoli (33) e un fiasco di vino nero. Allungò una mano per prendere l’aragosta, ma il cespuglio prese fuoco. Luigi si svegliò di colpo. I piedi gli bruciavano. Gli altri tre gli avevano sciolto le stringhe e tolto le vecchie scarpe che erano nascoste chissà dove. Il terreno scottava. Luigi schizzò in piedi, saltellando come un rospo sui carboni ardenti, tra le risate dei suoi parenti. «Le scarpe, dove l’avete messe?» Un po’ lo fecero sgolare, ma poi, mossi a compassione, gli ridettero le scarpe e lui non fece in tempo a rimetterle, che dormiva già. La vita intorno alla fornace proseguì per altri due giorni, con zio Antonio che andava e veniva, e durante le infuocate notti, Luigi ebbe il modo di vendicarsi. Lo scherzo della sparizione delle scarpe, toccò a tutti. Quando arrivò zio Antonio, nella prima mattinata del terzo giorno, la fornace perdette la forza e, a digiuno di fascine, le piastre «bararono» sul pavimento del cilindro. I ragazzi iniziarono a spalare i «toccoli» e ne preparano una stiva, pronta per essere insomata. Poco dopo, arrivarono alcuni compratori di calcina.
I giovani Pierulivo riempirono le ceste e le sistemarono sui somari. Capo a qualche ora, il piazzale era vuoto. Era giunta l’ora di tornare a casa. Per riposarsi, avrebbero passato qualche giorno a zappare le vigne o a scalpellare nella cava, e poi avrebbero risposto ancora alla chiamata della fornace.
P.S. Nel 1954, Luigi sposò quella strana ragazzotta, Mirella Pancani. In seguito, si dettero da fare e nacquero due figli, Tiziana e Fabrizio. Adesso, dopo tanti anni, vivono ancora nella loro bella casa di Seccheto, all’inizio di via Garibaldi. E, cavolo!, si vogliono ancora bene.
Adriano Pierulivo
LEGENDA
LE TOMBE (1) = Località ad ovest di Fetovaia
BUETTA (2) = Contenitore per tabacco
PIPPA (3) = Pipa
ERBITRO (4) = Corbezzolo
MONTE COCCARO (5) = Monte prospiciente Le Piastre
BARAVA (6) = Crollava
TOCCOLI (7) = Piastre ridotte a calcina
GORA (8) = Piccolo corso d’acqua, naturale o artificiale
CANALETTO (9) = Località tra il Monte Agaciaccio e il Monte Còccaro
SCHIOPPOLATO (10) = Scoperchiato
D’ARIVA’ (11) = Di arrivare
‘UN (12) = Non
FOCO (13) = Fuoco
FAMO (14) = Facciamo
CONTA’ (15) = Contare
MOZZI MOZZI (16) = Lenti e rassegnati
DOVEMO (17) = Dobbiamo
POTEMO (18) = Possiamo
LEGAMO (19) = Leghiamo
DU’ (20) = Due
UMMI (21) = Non mi
MIGA (22) = Mica
RUBA’ (23) = Rubare
MÌ (23 BIS) = Guarda
LA GUARDIOLA (24) = Posto di guardia militare durante il conflitto 1940-45
RECINTA’ (25) = Recintare
TRASPORTA’ (26) = Trasportare
PREOCCUPA’ (27) = Preoccupare
VENIRA’ (28) = Verrà
PROTESTA’ (29) = Protestare
VIENE (30) = Vieni
VINELLA (31) = Mezzo vino, con acqua passata nelle vinacce
FRANGETTE (32) = Dolci casalinghi fatti con strisce di pasta all’uovo, intrecciate e fritte, passate nello zucchero bianco.
STRUFOLI (33) = Dolcetti fatti con farina, uova ed altri ingredienti. Passati nel miele