Riassunto delle puntate precedenti. Che fine ha fatto l'elbana? È scomparsa? È stata uccisa? È l'assassina? Gran finale.
L'ultima traccia dell'elbana risale all'alba del turismo nella sua isola. E poi cos'è successo? Il vostro affezionatissimo detective ha cercato di ricostruire i momenti che seguono, sulla base degli ultimi movimenti degli indiziati, e sulle loro note caratteriali emerse dagli identikit. Ed ecco cosa ha scoperto.
Come da tradizione di famiglia, l'elbana, ormai anziana, continuava a riunire i figli per vederli crescere. Dagli anni '50, a ogni incontro di famiglia, la donna faceva sempre più fatica a riconoscerli. “Quanto siete cambiati, figli miei”. Ormai, poco a poco, tutti stavano smettendo i loro titoli nobiliari per attendere alla nuova vocazione, il turismo. Ma non era questo che amareggiava la madre.
Li vedeva indossare abiti marchiati da firme di sarti dai nomi altisonanti, che tutti celebravano per non si sa cosa di particolare, rispetto agli onesti sarti del passato. Ma le loro vesti erano così omologate alla moda del momento, da apparire quasi divise da detenuti. Li vedeva circondati da cose superflue, comprate il lunedì e buttate il lunedì stesso, imposte da uno stile di vita forgiato da un neocapitalismo, che stava trionfando su tutta la linea come mai era successo al vecchio.
Percepiva quei figli come degli alienati dal loro status borghese. Burattini che imitavano un modello pubblicitario televisivo, magnificato come un nuovo prototipo di famiglia inserita in un paradiso consumistico. Ma, a differenza di loro, riusciva a cogliere sgomenta il lato tossico di questo finto paradiso: il disagio di una vita non meno dolorosa di quella del passato, ma questa volta pericolosamente in bilico sul suicidio.
Ridevano, certo, si divertivano, quei figli. Ma anche quell'allegria era solo lo specchio di un modello culturale borghese. Quanto diversa da quell'allegria conosciuta da ragazza, quando le privazioni e la miseria e il dolore rendevano veramente la felicità una cosa preziosa e da cogliere come un dono della vita.
Quelle belle parlate genuinamente caratterizzanti le sentiva sparire in un italiano, neanche dialettale/popolaresco o colto, bensì mediatico e tecnologizzato e incistato di neologismi derivati da un inglese di sconfortante aridità commerciale. Anche la scrittura dei figli era passata da una ingenua scarsa alfabetizzazione a un analfabetismo modernista inculcato da strane invenzioni dette social media. Sì, talvolta coglieva dei lacerti di idiomi aviti, ma nelle loro bocche suonavano come una scimmiottatura della sua parlata, un arcaismo da lingua irrealmente appartenuta.
La sua casa si stava trasformando, ma i figli la stavano ricostruendo sulle vecchie fragili fondamenta. La vedeva consumata, spremuta fino al limite, privata di quelle diversità naturali così preziose. Sapeva che le risorse vanno razionalizzate, ma le vedeva dilapidate.
E capiva. Capiva che il suo tempo era finito. Capiva che era inutile parlare a quegli estranei, non più figli, che ormai non la stavano più a sentire.
E così arriviamo al momento decisivo della vicenda. Nell'ultima riunione di famiglia l'elbana ha detto, ormai rassegnata: “Siete troppo cambiati”. Era solo un sussurro, neanche una nota di rimpianto. I figli si sono guardati, come si fossero trovati davanti una marziana venuta a sostituire la vera madre.
E non c'è stato bisogno di parlare: tutti hanno pensato la stessa cosa. Ed è partita la prima stilettata: le nobili tradizioni contadine e culturali, il folclore, i riti e le ricorrenze, distrutti. E poi un'altra: le coste devastate dal cemento. E infine una furia omicida incontrollabile: l'inquinamento delle discariche e degli scarichi in mare e gli incendi e gli sbancamenti di colline e gli ultimi da emarginare come perdenti di una sfida spietatamente vincente.
E non importa chi di quei figli abbia dato la prima coltellata, e neanche chi effettivamente abbia partecipato al delitto. Tutti hanno ucciso la madre. Non meno colpevoli degli esecutori sono stati i figli che hanno voltato lo sguardo dall'omicidio, giustificandosi che quella anziana madre comunque ne aveva per poco. E non meno, anzi forse più colpevoli, quei figli che hanno mostrato uno schifoso pietismo, dicendo che anzi era giusto morire così, più misericordioso che tirare avanti soffrendo.
E per la prima volta quella dozzina di figli si sono riconosciuti in un solo corpo, una sola voce, un solo pensiero. L'elbese. Appartenente solo geograficamente a un'isola, ma che niente aveva a che vedere con il suo passato e la madre. Non più titolato a portare il nome di elbano.
E infine quel feto adulto, che uccidendo fisicamente la madre aveva ucciso nel pensiero i fratelli, si è detto, guardando il cadavere: “Adesso bisogna far sparire il corpo”. E ha commesso forse l'atto più atroce. Ha divorato la madre. Sperando così di salvare il suo passato, di trovare in quel povero corpo senza più calore una legittimazione alla sua rinascita.
E adesso che, come da tradizione, ha ricostruito il delitto, l'indagatore può anche scivolare fuori dalla scena. Essa è tutta dell'elbese. Questo Norman Bates dallo sguardo ancora più inquietante e allucinato, che ormai sente una dozzina di voci di fratelli nel suo cervello, illudendosi che essi siano ancora vivi, unici e particolari. Il vostro detective non ha alcun bisogno di farlo arrestare. L'elbese è già in una galera di conformismo e omologazione. Non vede le sbarre, e quindi pensa di essere libero. E, forse, felice.
Il caso è chiuso.
Andrea Galassi
p.s. Grazie a tuttI per avermi seguito fino in fondo.