Io mi ricordo, come una abbacinante avventura, un giorno di festa (uno dei pochi insieme a Natale), quando partimmo da Risecco carichi di vettovaglie e con i fazzoletti in testa, come muratori. Bimbetti non so quanto piccoli – forse non avevo ancora 6 anni – dietro alla mi’ mamma e al mi’ babbo stranamente insieme, stranante felici, e camminando tra strade selciate, muri, vigne e orti ancora sconosciuti, in un labirinto verde e di granito e calce che sapeva già d’uva, raggiungemmo il porto, l’Atore e la spiaggia della Finiccia dove – e non eravamo i soli – stendemmo la tovaglia buona a mangiammo panzanella e forse, un lusso da signori, prosciutto e melone. E Jole e Veleno bevvero vino e lo spartirono con gli altri e le altre e noi acqua frizzante fatta con la Frizzina, l’idrolitina del Cavalier Gazzoni. E dopo poco la Finiccia risuonò di rutti divertiti di bimbi, come richiami di piccole foche.
E poi la testa immersa in fettone di cocomero e semi sputati come proiettili. E dopo ci lavammo il muso col bianco attaccato alla scorza della mezzaluna verde.
Una scampagnata marina, proletaria, povera, un giorno limpido e sospeso di festa, sui sassi bianchi della Finiccia, di fronte alla Capraia e a un mare blu, col vento che spingeva onde spumose sulla spiaggia, un vento fresco che annunciava già l’autunno.
Una gita eccezionale a 800 metri da casa. Probabilmente l’ultimo Ferragosto di un lungo dopoguerra che ormai era finito, una riga del tempo, invisibile, che nessuno sapeva di aver oltrepassato, che vedi solo da lontano, voltandoti indietro a occhi chiusi.
C’è stato un tempo, brevissimo, in cui siamo stati felici di piccole cose.
Umberto Mazzantini