Durante il suo periodo milanese Pietro Gori conobbe un ventenne anarchico che un paio di anni più tardi avrebbe fatto scalpore: Sante Caserio. Pietro racconta che fece la sua conoscenza durante un comizio alla Canobbiana, presentati da alcuni panettieri anarchici. Il giovane aveva fondato in quei mesi un circolo in zona Porta Genova: A pè, ovvero “a piedi”, in dialetto meneghino, che in gergo popolare significa “senza soldi”. Gori lo stimava una persona molto generosa, e ricordava di averlo visto distribuire ai disoccupati, davanti alla camera del lavoro, pane e opuscoli anarchici stampati a sue spese, con grandi sacrifici, essendo un garzone di fornaio. Il 26 aprile 1892 Sante venne arrestato per la distribuzione di un manifesto antimilitarista ai soldati delle caserme di Porta Vittoria, invitandoli a non reprimere le adunanze proletarie del prossimo 1° maggio. Condannato in primo grado a 11 mesi, fu difeso da Pietro in appello, e la pena gli era stata ridotta a otto mesi.
Pietro scrive anche di aver condiviso con Sante il carcere, a San Vittore: “Ricordo che una volta, nel giugno 1892, io e insieme ad altri trenta compagni anarchici, fummo liberati dopo alcune settimane di carcere preventivo, fatto sotto l'accusa di associazione di malfattori […]. Fra i miei compagni di sventura c'era Sante Caserio”. Molto probabilmente Caserio stava scontando l'arresto del 26 aprile e Pietro quello per un'altra manifestazione di dissenso. Di sicuro sappiamo che in questa detenzione Gori compose una delle sue canzoni più celebri: l'Inno del primo maggio.
Manlio Cancogni descrive così Sante: “Era di media statura, biondiccio, viso rosso, occhi azzurri, labbro superiore appena ombreggiato da una lieve peluria”. In un pamphlet (“In difesa di Sante Caserio”) e due interviste, Pietro riferisce diversi aneddoti sul giovane. Tra cui questo scambio di battute. Un giorno Pietro chiese a Sante: “E tu che sei un bel giovanotto, perché non fai all'amore?” Rispose il ragazzo: “Prima sì, ma dacché ho sposato l'idea non bazzico più donne, finché non mi farò una compagna, a modo mio”.
Caserio si era quindi trasferito prima in Svizzera e poi in Francia, vicino Montpellier, dove continuò a lavorare come panettiere. Venuto a sapere che il 24 giugno 1894 il presidente della repubblica Marie François Sadi Carnot avrebbe visitato l'esposizione universale di Lione, Sante si recò in questa città per ucciderlo. Riuscì ad accoltellare il presidente, avvicinandosi alla sua carrozza, mentre passava tra la folla. Al processo fu condannato a morte, tramite ghigliottina.
Dopo l'omicidio, Gori doveva aspettarsi che questa amicizia con Caserio sarebbe stata foriera di grossi guai. Tuttavia non solo non rinnegò l'amicizia, ma lo ricordò con parole affettuose. Gli dedicherà anche una delle sue più conosciute canzoni. Addossò la trasformazione in assassino di un ragazzo mite e bonario al potere repressivo, responsabile della “compressione delle idee”. In un'illuminante intervista alla Tribuna di Roma, il 2 agosto 1894, afferma: “Il pensiero, compresso nelle sue due valvole di sicurezza, la stampa e la parola, è il più terribile degli esplosivi. Ravachol, Vaillant, Henry, Caserio sono la manifestazione tragica, spietata, se volete, di questa esplosione di una idea compressa”.
Nel suddetto pamphlet invece definirà Sadi Carnot “il rappresentante della violenza della sua classe” e il “semidio dell'imbecillità popolare”, contro cui Caserio “si levò forte e terribile […] e nel suo pugnale riassunse la protesta suprema e di tutte le miserie e sventure umane”. E aggiunge: “[...] a parte il caso tragico di un uomo che muore e d'una famiglia che piange, io vedo qualche cosa di più importante e solenne, io sento il rombo della tragedia sociale innanzi a cui la morte di quest'uomo non fu che un semplice episodio. […] Perché, o farisei della toga e della penna, perché non dovremmo noi elevare un pensiero riverente a quelli dei nostri che caddero nella battaglia mortale, perché voi ne vorreste insozzare il nome, non contenti di averne decapitato il corpo? Perché non dovremmo farlo, ripeto, mentre dal lato vostro, voi glorificate i carnefici, vittime una volta tanto della rappresaglia degli umili, e li elevate agli onori del Pantheon?”
Per i suoi rapporti con l'omicida, i reazionari attaccarono Pietro, accusato di essere un cattivo maestro, se non addirittura il mandante dell'omicidio. E lui contrattaccherà duramente questi giornalisti, definendoli “una caterva di impostori bugiardi, i giornalisti borghesi, pagati dai conservatori del cosidetto 'ordine' pubblico”.
Pietro non si sottraeva mai alle polemiche o agli attacchi, rispondendo senza mezze frasi a tutti, anche coloro che lo denigravano grossolanamente, sfidandoli a provare le accuse. Così quando il giornale La Lombardia lo accusò appunto di essere il mandante del delitto, replicò: “In una lettera alla Lombardia, subito dopo l'attentato, sfidavo l'istruttoria a provar ciò. L'istruttoria ha escluso il complotto. Vedrete il processo. Caserio rivendicherà completa l'iniziativa e la responsabilità dell'atto suo”.
Al periodico La Sera darà un'intervista, raccontando i suoi rapporti con Caserio e rigettando ogni accusa: “Furono dunque le idee dell'anarchia che sconvolsero il suo cervello? Ecco il quesito psicologico, che gli uomini di buon senso dovrebbero opporre alla reazione, che domanda il linciaggio in massa degli anarchici”.
Nonostante fosse stata accertata dal processo, e sempre ribadita da Caserio stesso, l'assoluta inesistenza di complici o mandanti sia materiali che morali, anche per l'omicidio di Sadi Carnot, come per quello del re d'Italia Umberto I, sei anni dopo, i reazionari adombrarono teorie del complotto, tese a dimostrare che i due assassini agivano come esecutori di piani più vasti. Teorie, che Pietro definirà “fantasticherie carbonaresche”, senza alcun fondamento, come abbiamo visto nel caso dell'anarchico capoliverese Nicola Quintavalle, travolto da un'insensata caccia alle streghe, nel tentativo di addebitargli una complicità in una fantasiosa cospirazione, solo per screditare tutto il mondo anarchico e in generale di sinistra.
Pietro si difese in tutti i modi dal linciaggio morale nei suoi confronti, arrivando a temere anche quello fisico, in quanto fatto oggetto di minacce di morte, tanto che l'intervistatore della Tribuna, per evidenti motivi di sicurezza nei confronti dell'intervistato, inizia l'articolo: “Come sapete, l'avvocato Gori è qui [in Svizzera]: non è precisamente a Lugano e mi permetterete di non dirvi dov'egli abiti”.
Queste vicende saranno un duro colpo alla vita di Pietro, non certo il primo né l'ultimo, ma uno dei più difficili da superare, e che contribuirà a minare la sua salute e accelerarne la sua tragica conclusione.
p.s. Buon compleanno, Pietro.
Andrea Galassi