Enzo e le barche sognanti
Quando ho conosciuto Enzo Anastasia per la prima volta mi è sembrato di vedere in carne e ossa (ossa grosse e forti) uno dei personaggi lunghi, alti e filiformi disegnati da Franco Matticchio, ma più simile nel carattere a Jones, il suo robusto gatto sognatore.
Invece, parlando con quell’uomo di poche ma pesanti parole, che era l’immagine stessa della dignità, si scopriva uno che aveva del mondo una visione concreta, solida, granitica come il panchino sul quale gli piaceva sedersi, di fronte al negozio di Gulliver, quasi alla cantonata tra via Mentana e via Cavour, vicino alla targa di marmo con il segno che ricorda un antico alluvione, dove il vicinato di via Garibaldi si immerge nella bassa galleria di via Zara, dopo il forno di Iride, Ercole e Mario la creatura.
Era lì, a quel crocicchio di nomi risorgimentali, che cominciammo a scambiare qualche parola di politica, a commentare un mondo che Enzo Anastasia, diventato marinese in pensione per amore di Maria, guardava già con amarezza, quasi da lontano, come se fosse sul mare, al largo sul suo rimorchiatore, sulle navi della sua giovinezza e della maturità.
Eppure, in quel parlare asciutto, concreto, senza fronzoli, quasi in bianco e nero, dove tutto era al suo posto, emergeva a volte la poesia del gatto sognatore di quel fumetto onirico della mia gioventù. Qualcosa che si intuiva ma che era imprendibile, impalpabile come l’ombra delle figurine filiformi di Matticchio.
Poi, un giorno, Lorenzo il Capo mise su uno scaffale un modellino di una barca, mi sembra fosse rossa (ma non ne sono sicuro: il rosso è il colore del ricordo che buca la nebbia della dimenticanza), un guzzo così perfetto, minuscolo e perfetto, che sembrava un incantesimo. Una piccola poesia di fasciame, remi, scalmi, cordame. Una perfezione marina da pensare che da un momento all’altro un pescatore piccolo piccolo, come quelli dei Viaggi di Gulliver, ci sarebbe arrampicato sullo scaffale di Lorenzo, sarebbe imbarcato su quella barca portentosa e messi i remi agli scalmi avrebbe cominciato a remare.
“Bella! Di chi è?”, chiesi a Lorenzo” e lui, abituato a trattare con artisti e argilla tramutata in sogni: “E’ di Enzo. L’ha fatta tutta lui, a mano. Tutta a mano anche i particolari più piccoli”.
Finalmente avevo capito dove finiva tutta la poesia di quell’uomo alto, concreto e riservato che era l’immagine stessa della dignità: la imprigionava, la modellava, in quelle barche minute che, lo scoprii poi, aveva costruito per anni. Un mastro d’ascia minuzioso, un Puppasevo da microscopio.
Enzo ha continuato a costruire con le sue grandi mani sapienti e varare col pensiero le sue piccole barche, i suoi sogni matematici, la sua ingegneria navale del minuscolo. Lo ha fatto fino a che le mani e gli occhi glielo hanno permesso. Fino a non molto prima che finisse la sua lunga vita di uomo perbene, forse sognando il suo rosso guzzo. E forse Caronte lo ha aspettato proprio su quel rosso guzzo per portarlo in un altro mondo.
Non so dove siano ora le barche poetiche di Enzo, ma sarebbe bello rivederle insieme da qualche parte, per ricostruire la minuscola perfezione di una vita, l’armonica flotta di un uomo concreto che costruiva sogni leggeri di mare, legno e pazienza.
Umberto