«Consiglio a coloro che desiderano salire il Monte Capanne di scegliere una bella e limpida mattina di primavera, come pure di procurarsi una guida marcianese, preferibilmente pastore o carbonaio, per evitare in tal modo preoccupazioni e sorprese pericolose, poiché il sentiero, che conduce fino alla cima, è molto scabroso». Le parole di Edmondo Rodriguez Velasco, scrittore ed avvocato marcianese che scriveva nel lontano 1923, non lasciano molto spazio all’immaginazione. Gli antidiluviani «touristes» a cavallo tra Ottocento e Novecento si affidavano ad energici paesani disposti ad accompagnarli, previo pagamento in denaro, sul vertiginoso Olimpo elbano.
Il paese di Marciana vantava Francesco Ricci, soprannominato «Cavoli», che si arrampicava scalzo sulle rocce portando sul capo una grossa cesta («brùscola») colma delle masserizie appartenenti agli escursionisti; omone possente, analfabeta, che durante le vertiginose gite sul Monte Capanne cantava arie delle opere più famose di Giuseppe Verdi.
Il paese di Poggio annoverava, in tempi di poco successivi, Stefano Segnini, detto «Plàncate», curioso soprannome che gli affibbiò qualche cliente e che traeva origine da Planchet, il fido servitore del leggendario moschettiere D’Artagnan. Di lui si racconta che portasse un coltello per innestare gli alberelli di castagno selvatico che incontrava lungo il proprio cammino, e che, per meglio farsi comprendere dai «touristes» francesi che accompagnava sui monti, accentasse scherzosamente l’ultima parte di ogni parola italiana. Plàncate, come ci ricorda la nipote Annamaria, «era un sensitivo ed andava in trance. Ecco perché non aveva paura né della morte né dei morti che ha vegliato, seppellito e riesumato per tanti anni».
Silvestre Ferruzzi