Il contrasto fra l'atteggiamento del fariseo e quello del pubblicano, riportato dal vangelo, aiuta a comprendere le due modalità di rapporto con Dio e, di conseguenza, con se stessi, gli altri e i beni.
Il fariseo fa una chiara affermazione del proprio io, di un se stesso basato sulla meritocrazia (presunta), della separazione dalla maggioranza degli altri uomini. Tutto questo scaturisce da, e consolida, un rapporto con la divinità all'insegna della competizione e del calcolo ragionieristico. Dio, insomma, è considerato un avversario da temere perché logicamente più forte.
Al contrario, il pubblicano abbassa se stesso, non osa disputare con Dio, perché è consapevole della distanza fra sé e Dio, fra la sua umanità limitata-peccatrice e la santità divina. Ed è proprio questa certezza che costituisce il giusto modo di rapportarsi a Dio giusto e misericordioso. Solo chi sa abbassarsi e svuotarsi può sperimentare il chinarsi misericordioso del Padre e lasciarsi colmare dalla sua tenerezza. Tutto questo è denuncia dei nostri criteri umani, dell'apparire e del pretendere, e anche annuncio della possibilità di salvezza che umanizza.
Dall'io egocentrato scaturisce la violenza. Perché nega il valore della relazione e l'alterità. E' incapace di dire il “tu” autentico. E la deificazione dell'io ha sempre rappresentato un moltiplicatore disumanizzante.
In uno dei suoi ultimi testi (“La parola io”), Giorgio Gaber cantava: “La parola io / questo dolce monosillabo innocente / è fatale che diventi dilagante / nella logica del mondo occidentale / forse è l'ultimo peccato originale / io”. E descriveva l'io come segno di una logica infantile, della paura di non essere nessuno, l'immagine struggente del Narciso, al quale asservirsi compiendo persino bassezze, vivendo senza ideali assetato di potere. Con la volontà di essere il centro del mondo: io vanitoso, presuntuoso, esibizionista, borioso, tronfio, io superbo, megalomane, sbruffone, avido e invadente, disgustoso, arrogante, prepotente.
Legittimare, giustificare la violenza, nelle sue diverse forme, è rassegnarsi al paradigma dell'io. E' abdicare a quella libertà che spinge oltre il pensiero e lo sguardo, facendo intravedere il possibile e l'inedito. Un altro uomo è possibile, l'uomo in relazione che è capace di riconoscere l'altro (compreso l'ambiente) come parte di sé e il sé come parte dell'altro, che usa il “noi” sapendo che in ciò ogni io può riconoscersi. E' così che l'uomo trascende se stesso, nella relazionalità. Come il pubblicano che distoglie lo sguardo da sé e si rivolge all'altro. E lo fa in un contesto di preghiera, andando quindi alla radice dell'essere, in quella preghiera che, come scriveva Giovanni Vannucci, “è l'occupazione massima di uno spirito intelligente, di una mente aperta al soffio divino”.
(23 ottobre 2022 – XXX Domenica Tempo Ordinario)
PS – Giunti alla centesima puntata di questa rubrica settimanale, ringrazio i lettori e quanti mi hanno posto loro riflessioni e domande, sia a voce che per email.
Nunzio Marotti
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