Oggi sono stato a vedere la mostra “Raccolta di foto d’epoca della Marina” organizzata dalla Pro Loco con le foto di Antonio Mattera e, nella stanzetta sulla destra appena si entra nel vecchio municipio di Via Vadi, dove prima c’erano le guardie: Le pareti sono gremite di foto che trasudano volti, ricordi, persone dimenticate che mentre siete lì un amico o un conoscente vi aiuterà a riconoscere, paesaggi da ricostruire, vita passata che è diventata la nostra vita e che diventerà quella dei nostri figli e nipoti. Andateci, fateci un salto. Ne vale la pena.
E mentre ero lì è arrivato Renzo Mazzei Tamburino e ha cominciato a commentare foto e volti, e da una foto è spuntato anche lui, vestito quasi a festa, con Piero Peria con ancora addosso gli stivaloni a coscia, giovanissimi – Renzo 16 o 17 anni, Piero qualche anno di più – 60 anni fa, sullo scalo dell’Atore.
E’ una foto che racconta di un paese e di un porto che non ci sono più: le botti scure sullo scalo, uno degli ultimi leudi per caricare il vino ancora ormeggiato alla banchina, in attesa di salpare verso la Liguria, con qualche peschereccio e guzzo, ma niente panfili da signori e barche da diporto.
Ma il vero protagonista che aveva attirato all’Atore i bimbi in bicicletta e gli altri due con le mani in tasca è la grossa bestia sullo scalo, con Renzo e Piero in posa: uno in equilibrio tra la groppa e la cassa toracica del gigante e l’altro con uno stivale sul muso del “pesce”, a rivendicarne il possesso. Probabilmente, quello che era in realtà un raro cetaceo era ancora vivo ed esalava i suoi ultimi respiri in quello scalo scivoloso.
Tamburino mi ha raccontato la storia di quella foto che ora sarebbe impossibile, scandalosa e solleverebbe indignazione, ma che allora, quando ancora gli uomini e gli animali si scambiavano confidenza feroci, era normale.
Ecco cosa mi ha raccontato Renzo:
Lui e Piero erano in barca al largo di Sant’Andrea quando qualcuno li ha chiamati: sulla spiaggia c’era, arenato e ansimante sulla battigia il “pesce” grigio metallico segnato da innumerevoli graffi bianchi, come una scrittura aliena e indecifrabile, un animale mai visto, scaturito dalle profondità e venuto a morire sulla piccola spiaggia dorata dove allora vigne e canneti arrivavano ancora fino quasi al mare.
I due ragazzi legarono il “pesce” per la coda con una cima e lo portarono alla Marina, trascinandolo con fatica sullo scalo. La bestia era ancora viva e soffiava ritmicamente la sua stanca agonia dallo sfiatatoio sulla testa, rassegnato, immobile, ormai un trofeo per curiosi.
I due ragazzi andarono alla pescheria che allora era ancora del mi’ zio lampo e che poi sarebbe diventata di Angiolino per vedere di vendere quel grosso pesce “morente”. Lampo si informò, telefonò ai grossisti in continente, descrisse la bestia, ma il verdetto fu che quell’essere gigantesco non era commestibile.
«Era uno zifio», mi ha detto Renzo. E io gli ho detto che il mi’ zio Lampo si era sbagliato: quello era in realtà un grampo (Grampus griseus) perché lo zifio (Ziphius cavirostris), il mammifero marino che raggiunge le profondità maggiori e sta più tempo sott’acqua di tutti gli esseri che hanno i polmoni, non ha quel colore e quei graffi geografici e che lo zifio ha uno strano muso da anatra dal quale spuntano due soli denti.
Tamburino mi ha confermato che la bestia della fotografia «C’aveva il muso come un darfino”.
Poi ha proseguito raccontandomi il seguito di una storia che avrei voluto sempre sapere da quando ho visto quella incredibile foto sul sito internet Catarullo Marinese ma che ogni volta mi dimenticavo di chiedergli di raccontarmi. E, come fanno i pescatori, mi ha riassunto, in poche essenziali, parole qualcosa che sta tra il “Vecchio e il mare” di Ernest Hemingway e la magnifica e brutale ferocia della natura del mare marinese che ci siamo presto dimenticati.
Il grampo ha agonizzato tutto il pomeriggio, è passata la notte ed era ancora vivo, poi è morto, probabilmente soffocato dal suo stesso peso e dalla nostalgia del mare che sentiva ancora battere sullo scalo, come un richiamo che si è spento quando ha smesso di respirare.
Allora è arrivato il Delegato di Spiaggia e ha intimato a Renzo e Piero di disfarsi di quell’ingombrante bestione color del piombo prima che cominciasse a puzzare e ammorbasse porto e paese.
Per varare il “pesce” gigantesco ci è voluto uno dei piccoli pescherecci ormeggiati in porto che poi lo ha trascinato fino a tre miglia dalla costa, al largo di dove il grampo si era arenato sulla sabbia.
Per cercare di fare andar giù il grosso cetaceo, Renzo e Piero lo avevano appesantito con delle grosse mazzere, ma inutilmente, galleggiava. Allora Fortunato Ricci aveva praticato col coltello degli squarci sulla carcassa dell’animale, per fare in modo che eliminasse i gas. Ma il grampo che credevano fosse uno zifio rimase a galla, col muso rivolto verso l’alto. Il contrario di cosa fanno i grampi vivi che – e nessuno sa ancora davvero perché – ogni tanto se ne stanno in perpendicolare, immobili, a guardare le profondità, mentre la coda esce con me una bandiera dall’acqua e accarezza il cielo. Forse dormono, forse meditano, forse sognano.
Alla fine, visto che il grampo non voleva ritornare dalle profondità da dove era venuto e che cominciava a farsi tardi e che quell’animale che avrebbe dovuto portare soldi aveva alla fine portato solo guai e perdite, lasciarono lì la bestia. Che al funerale ci pensasse il mare.
Questa è anche la storia di una genia di pescatori marinesi che ancora continua e che il mare e il grampo riunirono.
Qualche ora dopo, tornando dalla pesca al largo della Corsica, Battista Balsamo vide un nugolo di gabbiani che si muoveva frenetico e che scendeva si buttava in picchiata in mare come quando c’è un banco di pesci. A bordo di quella barca, mi ha detto Renzo, c’era anche un giovane Mario Ricci, figliolo di Manlio. Il peschereccio mise la prua verso quella che credeva si sarebbe trasformata in una facile e grossa pescata e si trovò di fronte a uno spettacolo inatteso: i gabbiani erano proprio sopra a dove era stato lasciato il grampo, impazziti in un mare di sangue, mentre sotto l’acqua diversi squali – forse anche tacche di fondo, lo squalo bianco – portavano via ad ogni morso un pezzo del colosso abbandonato. Forse erano stati attirati dal sangue dei tagli praticati da Fortunato, forse erano stati richiamati dallo spirito marino del grampo, perché tutta la sua sofferenza diventasse natura, in un funerale barbaro, chiassoso, magnifico e feroce. come era ed è la vita degli animali e degli uomini.
Tamburino mi ha raccontato una storia congelata in una foto di 60 anni fa, una storia che volevo sapere da tempo, e Renzo ha scoperto che quel “pesce” che per 60 anni per lui è sempre stato uno zifio era un grosso delfino che si chiama grampo.
Basta ascoltarsi per sentire le nostre storie che si intrecciano in un nodo inestricabile e salmastro che le foto di Antonio Mattera raccontano mute, in attesa che qualcuno le ricordi.
Umberto Mazzantini