Parlare o scrivere sul carcere non è facile, nonostante vi lavoro da più di trent’anni, cerco di evitare l’argomento per timore di essere frainteso o mal interpretato ovvero cadere nella retorica tutti liberi o buttiamo le chiavi e provo a mantenere un basso profilo. Per questo sono rimasto favorevolmente stupito quando l’amico Enrico Sbriglia mi ha detto che aveva scritto un libro dal titolo Captivi pubblicato da Edicusano di Roma. Abbiamo lavorato insieme per vent’anni nel carcere di Trieste, poi le strade si sono divise. Una persona, anzi un direttore penitenziario che conosce il carcere meglio della sua mano da quando ha cominciato da educatore fino a terminare da provveditore quando è andato in pensione. Una vita al servizio dello Stato, sempre pronto giorno e notte, domeniche e festivi, Natale e Pasqua.
Captivi racconta un mondo in chiaroscuro, probabilmente ai più sconosciuto, le carceri, che fanno discutere, e cerca di portare all’attenzione dell’opinione pubblica le tante professionalità che vi operano in silenzio come servitori dello Stato. Storie nate in alto a destra, a Trieste. La città cara agli italiani con la sua straordinaria atmosfera, multiculturale e multirazziale con il suo miscuglio fatto di genti italiane, slovene, croate, ungheresi, greche e dalle molte religioni che convivono pacificamente. Transfrontaliera fino a ieri, dove si parla il triestino, l’italiano e lo sloveno, oggi al centro dell’Unione Europea a seguito dell’adesione dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989.
Un luogo di contaminazione e di osmosi delle culture che rispecchia le diverse sensibilità che l’animano, in un alternarsi e confondersi di drammi, come la tragedia delle foibe e l’esodo delle genti istriane, fiumane e dalmate, ma anche le gioie, di ricordi e di prospettive verso un futuro da conquistare e che rappresenta con la propria inquietudine il luogo ideale per raccontare le storie di Cesare Sanfilippo, direttore di carcere. Il personaggio protagonista, l’alter ego dell’autore, con le sue storie vere frutto degli appunti meticolosi di tanti anni di colloqui umani con i detenuti, mai considerati come una pratica amministrativa, che nonostante tutto continua a credere a una Giustizia giusta, ma che a volte sente vacillare le sue certezze.
Nel libro traspare la sua capacità di raccontare il carcere e le sue storie crude di donne e uomini detenuti e detenenti con i paradossi, i controsensi e forse l’impossibilità delle finalità ai quali il sistema carcerario per cui lavora gli chiede. Comincia a credere che non poche volte sia la fatalità a giocare il ruolo di protagonista nel tragico palcoscenico della giustizia. Quelle che racconta non sono recite, sono storie vere, vissute di persone che pagano con la libertà gli errori commessi. Irrimediabilmente uniti da uno stesso destino di comunità di cui anche lui fa parte e che coinvolge anche le persone e gli affetti più cari.
Un libro da portare in spiaggia sotto l’ombrellone per un momento di relax e che parla di persone in difficoltà, da leggere, ma anche un momento di riflessione nel cercare di raccontare aspetti del mondo carcerario ai più sconosciuto e a quanti lo giudicano con troppa superficialità basandosi su stereotipi forse vecchi se non superati in una moderna società italiana del XXI° secolo figlia di Cesare Beccaria.
Enzo Sossi