C'è una folla stanca e sfinita di fronte al Cristo di cui parla il vangelo di questa domenica.
Delusa davanti ai capi che agiscono per se stessi, dimentichi del resto, incerta verso il futuro, carente di speranza, sopraffatta dagli obblighi esosi imposti dal potere, compreso quello religioso, sfinita dalle vicissitudini della vita quotidiana e dal circolo vizioso che costringe alla monotonia senz'anima. Anche le relazioni si fanno difficili e prevale la sfiducia, mentre nell'orizzonte più vasto si lotta per la conquista di territori o di supremazia.
La gioia attraversa poco lo scorrere dei giorni. Eppure, il Cristo continua ad annunciare il Regno come buona notizia, cioè come di una realtà in cui si è in attesa e capace di dare gioia.
Anche il nostro tempo appare abbastanza caratterizzato da stanchezza e sfinimento, da disorientamento, da senso di vuoto, dalla disillusione, dall'essere una massa ondivaga e senza meta, sopraffatta in modi diversi a seconda della collocazione geografica ed esistenziale.
L'uomo di oggi attende una buona notizia? L'uomo del nostro tempo vede nel cristianesimo una proposta di vita rinnovata? Cristo è ancora significativo?
Non molto tempo fa, un cardinale ha detto “Ho paura che la nostra pastorale parli ad un uomo e una donna che non esistono più” (Hollerich). Un'affermazione che fa pensare e che, istintivamente, non può che essere condivisa. Di fronte al cambiamento antropologico le chiese cristiane appaiono mute, incapaci di comunicare, relegate ad un ruolo marginale nel plurale mercato delle proposte.
Forse, ai tempi di Gesù, i rappresentanti religiosi non si erano resi conto del desiderio di libertà degli uomini e delle donne, di vita bella e buona vissuta in una relazione armonica con se stessi, con gli altri, con la natura e con l'origine della vita (Dio, l'Essere, il Fondamento, l'Assoluto). Ed è, nella pluriformità, lo stesso desiderio di oggi e di sempre. Una relazione armonica che possiamo sintetizzare con il termine pace.
Che fare? Come si comporta Gesù?
Innanzitutto vede: non si gira dall'altra parte, non è distratto, non si ferma alle apparenze ma guarda in profondità. Poi sente compassione: partecipa, sente come propria la sofferenza altrui. E poi, dice, si esprime: prende posizione e condivide con altri, coinvolgendoli. Perciò chiama: il coinvolgimento avviene attraverso un rapporto personale, conducendo l'altro a partecipare alle sofferenze e al suo progetto. Per questo, dona loro il suo stesso potere: la sua forza e motivazione, lo spirito di amore. E invia ad opporsi al male nella propria vita e nella liberazione di fratelli e delle sorelle: e lui promette che sarà sempre presente, appunto come forza dell'amore in ciascuno e nel mondo.
Detto sinteticamente, Gesù si fa prossimo, buon samaritano, dell'uomo e dell'umanità stanca e sfinita, per ravvivare il sogno della fraternità, di un mondo sottratto al nulla e dotato di sensata speranza. Rinnova l'interiorità affinché sia possibile la vera rivoluzione personalistica e comunitaria. Questa è la strada che le chiese sono chiamate a percorrere nella storia per essere segno e strumento dell'Amore, su cui fondano la propria esistenza e che gratuitamente hanno ricevuto.
Può valere la pena vivere per questo sogno-progetto? E' possibile, come testimoniano – e non da oggi – le tante oasi dove l'altro è semplicemente homo frater, e perciò esperienza di incremento di vita. Nella pace e per la pace.
(18 giugno 2023 – 11^ domenica del tempo ordinario)
Nunzio Marotti
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