Le nostre estati e il diventare grandi erano segnati dalle insalatine (tuffo di piede) e dalle ciuttate (tuffo di testa). L’avanzamento dell’età e dell’abilità (che qualcuno non avrebbe mai raggiunto) li si misurava fin da bimbi: l’insalatina era roba da piccoli e da bimbe, ma la variante cocomerata (a bomba) era roba da farabutti, soprattutto se fatta di sguincio per riuscire a bagnare la famigliola di turisti che guardava il panorama e il mare al Moletto o l’amico (che più amico era meglio era) che si era appena fatto la doccia e rivestito e leccato di sana pianta dalla mamma: un figurino bagnato come un cencio da tera.
A un certo punto, come un richiamo migratorio, un segnale ormonale, si era troppo grandi per fare il bagno al Moletto e ci si trasferiva alla Finiccia, ma prima di migrarci come totani innamorati e prima che Mimmo Iddo Cavallo migrasse in Canada, Mimmo inventò una variante della ciuttata – alla Santa Chiara – che prevedeva svariate mosse e contorcimenti in aria, il che provocò diverse e dolorose panciate a tavolone, ma fu anche così che i più bravi impararono a fare i tuffi carpiati.
E di bravi a fare i tuffi ce n’erano, ma non erano molti. E tutti avevamo uno stile essenziale: non vi immaginate Klaus Dibiasi. Al massimo giusto un carpiato e un’entrata in acqua senza troppa schiuma.
La bravura e il coraggio si misuravano dall’altezza e, dopo aver fatto tutta la trafila tuffandosi dai diversi scogli di diversa altezza tra la Finiccia e la Finiccetta, restavano due tuffi che non tutti avevano il coraggio – o forse l’incoscienza – affrontare: uno era quello della Finiccetta, dove, subito dopo la spiaggetta, un piccolo promontorio rotondo lascia insinuare un piccolo fiordo basso di mare tra la parete di scogli gialli. Il tuffo, possibile solo di ciuttata, lo si faceva da una sporgenza, simile a un blocco di partenza dei nuotatori in piscina, ma che usciva già dalla vegetazione di mucchi appiccicosi (cisti marini per i turisti, mucchi caprini per gli altri elbani). La prima volta che ho visto uno che si tuffava scavalcando quel piccolo fiordo trasparente, volando di poco oltre gli scogli e arrivando in mare illeso, si trattava di Beppino Giretti, più grande, più grosso e più forte di noi. E lo fece con apparente naturalezza, fluido nonostante la stazza. Anche se la schiuma in mare la fece.
Dalla passerella di cemento cominciai a guardare come facevano lui e gli altri e poi ci provai. E scoprii due cose: quando sei lì pensi di non farcela, da fermo, flettendo le gambe su una punta di scoglio ronsicata dalla pioggia e dal salmastro sputato dalle onde, a fare un salto di diversi metri; ma siccome ti sei infilato in un posto in cima a uno scoglio dove ti guardano tutti (soprattutto credi che ti guardino tutte), devi farcela perché a quell’età stupida era meglio farsi male che passare per vigliacco.
Mi lanciai così verso quella che sembrava la morte sicura e scoprii che la salvezza era nella parabola: entrai di testa a pochi centimetri dalla punta tonda degli scogli più bassi e mi venne anche un bel tuffo. Poi, perfezionando lo stile, nei giorni successivi, e per anni, ne feci altri, inserendoci anche il carpiato che mi aveva insegnato Mimmo Iddo Cavallo un’estate di bimbetti al Moletto che ormai quasi non ricordavo più.
Ma il vero tuffo, quello finale, definitivo, era quello della Leccetta, nella punta accanto, dove fanno il nido i colombi di mare: 13 metri (anche se dubito che qualcuno li abbia mai misurati davvero). Un tuffo verticale da dove la macchia è diventata già scope e sotto un mare chiaro, ma cosi chiaro che conti le crepe sugli scogli e vedi le salpe che brucano le alghe. Così trasparente che, quando sei lassù, ti chiedi se lì sotto ci sia abbastanza mare da non finire spiaccicato sul fondo.
Da lì, dalla Leccetta, anche l’insalatina era un atto di coraggio che ogni tanto facevamo con Franco Galletti e qualche altro incosciente. Anche tuffarsi di piedi richiedeva verticalità assoluta, altrimenti uscivi (e uscivamo spesso) con qualche arrossamento addosso che presto diventava un livido, come ti avessero passato addosso carta vetrata.
A Franco, che non era un gran tuffatore ma amava infilarsi in ogni situazione rischiosa, bastava quello, bastava il volo vertiginoso e a picco, l’insalatina trasformata in gioco da circo, io invece guardavo con invidia quelli più grandi di me e più bravi di me tuffarsi ad angelo o in verticale da quell’abisso di aria e di mare con apparente tranquillità, anche se non sempre finiva bene e dagli spruzzi capivamo subito quanto era andata male per la schiena e a volte per le cosce e la pancia del tuffatore scarso.
E un giorno, rimasto quasi solo alla Finiccetta, me ne andai a nuoto verso gli scogli, scalai il precipizio e arrivai alla Leccetta, con sotto il mare quasi già scuro del tramonto che arrivava. Guardai di sotto, mi alzai, mi raddrizzai, mi accucciai di nuovo. Sapevo che se non lo avessi fatto non lo avrei fatto più. E all’improvviso, come se un vento inesistente mi avesse dato una spinta mi tuffai e, mentre cadevo, sentii la mia schiena, che tentavo di tenere dritta e verticale come faceva Klaus Dibiasi dalla piattaforma, cedere un po’ verso il mare aperto, mentre la parete di scogli mi sfilava davanti un po’ inclinata. L’entrata in mare fu un crack come aver spezzato un vetro, una scudisciata sulla schiena piegata, dolorosa. Il tuffo di testa che sognavo e temevo era venuto male, ma era venuto.
Mentre mi leccavo le ferite salate alla schiena e all’orgoglio, mi dissi che non l’avrei più rifatto. Invece, dalla Leccetta poi mi sarò buttato ancora una ventina di volte, facendo ciuttate passabili e alcune catastroficamente dolorose.
Ma una cosa l’ho imparata: a un certo punto si smette di ciuttarsi a testa in giù, si scopre che il coraggio è quotidiano è che bisogna cercarlo da un’altra parte, e che è più difficile che fare un salto verticale o una parabola tra gli scogli, l’aria e il mare.
Però di un’altra cosa sono certo: se provassi a fare oggi queile ciuttate, più di 40 anni dopo, probabilmente morirei, ma sono vivo e ve lo racconto anche perché ho fatto quei tuffi sconsiderati, lanciandomi nell’aria, senza sapere come e dove sarei arrivato e quanto ne sarei uscito ammaccato.
Umberto Mazzantini