Dopo aver aspettato per ben 18 giorni che le condizioni del mare lo permettessero, una feluca, mandata appositamente dal governatore di Portoferraio, venne a prendere a Livorno fra' Giuseppe e il suo compagno Antonfrancesco. Fu così che i due frati cappuccini sbarcarono a Portoferraio il 7 novembre del 1698. Non erano certo i primi frati che arrivavano sull'isola per compiere le cosiddette missioni, cioè processioni e prediche in tutte le chiese elbane col precipuo scopo di ravvivare la fede nei miscredenti isolani. Ma lo scopo di fra' Giuseppe era anche un altro. Come aveva promesso al granduca, egli intendeva fare una accurata descrizione dell'isola in tutti i suoi aspetti, da quelli più legati al culto (come la descrizione delle chiese, delle Compagnie, delle ricorrenze religiose...) a quelli archeologici, naturalistici e persino etnografici. Così fra' Giuseppe ci ha lasciato un resoconto che è una vera e propria istantanea di come si presentava l'Elba a fine Seicento, oltre a una ventina di bellissime illustrazioni, che allega alla sua relazione ma che non sono opera sua, bensì di persone del posto non meglio identificate. Per quanto ne sappia, il resoconto del frate è in ordine cronologico la prima trattazione completa dell'isola, anche se il frate, non essendo un esperto, si limita a riferire ciò che vede e ciò che gli raccontano i locali con cui viene a contatto, senza approfondire nessun argomento. Da parte del frate vi è un acuto spirito di osservazione ed un intuito a cogliere le notizie più interessanti e curiose, che di certo prende a modello un modo di raccontare che si rifà addirittura agli antichi greci e che percorre tutto il Cinquecento (si prenda ad esempio Leandro Alberti e la sua Descrittione di tutta Italia) sino a giungere alle descrizioni settecentesche.
Fra i racconti dei miracoli dei santi locali (come quello della spazzatura della chiesa di San Defendente usata come antiparassitario), i resoconti dei popolani che si accalcano per ascoltare le sue prediche piangendo ed invocando Iddio, le descrizioni delle tante chiesette sparse sulle montagne (molte delle quali già ruderi), il frate riporta interessanti notizie naturalistiche. Fra queste ve n'è una che ci sembra di un certo interesse. Giunto al Cavo e dopo aver parlato della chiesa di San Bennato, scrive che “intorno all'isola vi sono molti e spessi scogli, tra' quali si vedono varie e diverse grotte molto curiose, e si vede spesso il pesce nominato il vecchio marino, che assomiglia assai all'uomo: ha la testa di vitello, ma certe braccia e piedi corti, peloso assai e nero. Dorme nelle grotte et è grandissimo camminatore, et al tempo dell'uva fa di gran male alle vigne. Ne ammazzano spesso et hanno una pelle durissima che si concia..”. Vecchio Marino era il nome con cui veniva indicata quella che attualmente si chiama foca monaca. Plinio nella su Storia Naturale la nomina come Vitulus marinus, vitello marino, nome poi ripreso da Guglielmo Rondelet in Libri de piscibus marinis (1554), Ulisse Aldrovandi in De piscibus (1613) e altri. In ogni modo quella di fra' Giuseppe è la documentazione che l'isola era abitata dalla foca monaca e che purtroppo già nel Seicento gli abitanti ne facevano strage. Parla di questo mammifero quando si trova al Cavo, ma dice che questi esemplari si trovano un po' ovunque nelle grotte dell'isola.
La conferma di questa presenza ci è data da dei documenti di qualche decennio prima. Il provveditore di Portoferraio Piero del Rosso scriveva nel 1639 al granduca che un “maledetto vecchio marino” stava facendo danni alla tonnara e che era stato costretto a mettere un bando, cioè una taglia, sulla sua testa. A chi lo avesse ammazzato il provveditore gli avrebbe dato cinque scudi, una discreta somma visto che quattro scudi era lo stipendio mensile di un soldato. Una somma che spronò molti isolani a dare la caccia al povero animale che venne individuato allo Scoglietto e ucciso a archibugiate da un riese soprannominato Moretto. L'esemplare era così bello e grande che il provveditore invece di farlo scuoiare per ricavarne cinture e selle, decise di farlo “accomodare come da vivo” e inviarlo al granduca. L'animale fu pesato e risultava essere di 750 libbre, vale a dire circa 250 chili.
La caccia che si faceva al Vecchio Marino non era dovuta al pregio delle sue carni: “La carne sua è molle, e spugnosa, et si liquefa tosto, et per questo ella sazia molto, et fa venir la nausea per esser di strano odore”. Il povero animale veniva perseguitato perché disturbava la pesca e faceva danni nei campi. La sua pelle era però di qualche valore per fare cinture e selle: ”Le sue pelli sono molto stimate, et appresso gli antichi ne portavano le cinture perciocché havevano oppinione di non poter esser percossi dalla saetta, avendole intorno” (G. B. Ramusio, Delle navigationi et viaggi, Venezia 1606).
Il 7 gennaio i due frati, finite le missioni, si imbarcarono su un liuto privato per Livorno. Dice Giuseppe: “accompagnati dal Signor Generale e da tutti l'offiziali, e poi da' sacerdoti e dall'affetto di tutti i popoli, ci portammo alla Porta di Mare e, ringraziati di nuovo il Signor Generale e tutti, entrammo nel bastimento, dove tutti vennero a baciarci le mani e dirci a Dio... Escimmo dalla darsena, e si spiegò le vele ai venti con un tempo squisito, e perché il vento era fresco si cominciò con gran felicità il viaggio e presto ci trovammo ben lontani da Porto Ferraio, et il Signor Generale andò sempre ai posti e sentinelle, dove potea vederci, per accompagnarci con la vista, e con l'affetto”.
Termina così l'esperienza elbana di fra' Giuseppe da Fiorenza, al secolo Giuseppe Gaburri, la cui interessante relazione è fortunatamente giunta sino a noi, seppur custodita nella British Library, e ora pubblicata.
Giuseppe da Fiorenza, Relazione delle Missioni e dell'Isola dell'Elba con le vedute de' luoghi più singolari e di molte particolarità della medesima, a cura di Fabrizio Fiaschi, Persephone Edizioni, Capoliveri 2023.
Didascalia dell'immagine: De Vitulo maris mediterranei, da: Guglielmus Rondeletius, Libri de piscibus marini, in quibus vera piscium effigies expressa sunt, Lione1554.