Famei, pare uno scherzo crudele del destino, un ossimoro di famiglia, di chi invece è stato abbandonato.
Navigando in rete una donna anziana parlava in veneto di – famei –. Sulla Treccani la definizione in italiano di famigli: servi, con riferimento soprattutto a quelli di Roma antica. Incuriosito da tanta pochezza, continuando a cercare, ho trovato nell’archivio storico dell’Ecomuseo della Valle dei Laghi in Trentino il termine dialettale fameo: bambino/a o ragazzo/a mandato a servizio presso una famiglia benestante ricevendone in cambio vitto e alloggio.
Il fameo è stata una figura tipica della società contadina del Novecento nel Lombardo-Veneto e nella Bassa Padana, ed era frutto di una povertà diffusa in cui l’alto numero di bambini – dalle tante bocche da sfamare – determinava la necessità di dare – in affitto – i propri figli, spesso per sempre, alcune volte tramite mediatori e molte altre direttamente dal padre, presso famiglie agiate che in cambio del loro lavoro davano vitto e alloggio.
Nel Lombardo-Veneto, i famigli erano bambini/bambine che verso i dieci anni i genitori poveri mandavano a lavorare a volte dietro un pagamento in natura, tipo un sacco di grano e l’impegno di ospitarli, nutrirli e vestirli. Di fatto erano abbandonati dalla famiglia di origine. Erano lavori umili, dormivano nelle stalle e nutriti con i resti, vestiti con stracci, senza un cenno di conforto o un sorriso. Senza un mestiere, analfabeti, incapaci di emanciparsi e sicuramente anche prigionieri dell’ignoranza. Schiavi nel XX° secolo in un’Italia borghese e in una nazione con lo stato di diritto e l’uomo come fine.
Sconcertato, perplesso, confuso, i fatti, gli argomenti, le idee, i valori della miseria, l’infamia… indignato per la sorte dei famei, dei bambini-schiavi ho continuato ad indagare. Vi sono testimonianze che raccontano della loro presenza nel nostro Paese almeno fino al governo Parri. Raccontano di un padre con sette figli e la moglie malaticcia, che non poteva lavorare nei campi e che col proprio salario stagionale la miseria regnava nella casa. Se trovava qualche offerta, collocava il più grandicello come fameo. Anselmo, il quarto dopo due fratelli e una sorella, a nove anni salutò la madre ed i fratelli. Tutti sapevano che non si sarebbero rivisti mai più. Il padre effettuato il baratto, in lacrime lo abbracciò forte e s’incamminò col suo sacchetto di grano. Le sue ultime parole: “Coraggio, obbedisci sempre, fai il bravo. Addio”.
Anselmo un bambino di nove anni era disperato, impaurito, solo. Per dormire aveva un angolo della stalla schermato da una parete di paglia e fu subito messo a spaccare legna. Il lavoro era senza orario, di giorno nei campi, di notte nella stalla a pulire e mungere. Era sempre solo dormiva con le mucche e ai pasti si presentava in cucina con una gavetta e la padrona, la Ida, senza parlare, gli rifilava gli avanzi. Non era cattiva, ma estenuata e distrutta dalla povertà e oppressa di lavoro: quattro figli piccoli e i campi, il pollaio, i conigli. Per Anselmo una vita di fatica, salvo poche ore di sonno agitato. Solitudine. Niente scarpe, scalzo o con zoccoli fatti da lui. Le uniche parole erano di comando o rimprovero.
Una persona ignorata, ai margini, sconosciuta alle autorità e che dalla stalla assistette alla storia che scorreva ininterrotta: i carabinieri che portavano via le reclute della Grande Guerra, le lettere che ne annunciavano la morte, la feroce strage della Spagnola, la miseria della Grande Depressione del ’29 e l’Abissinia, la Spagna, la Grecia, la Francia, la Russia. Altre lettere di morte, altri pianti. Lui non esisteva. L’anagrafe e i registri della chiesa lo ignoravano. Era stato battezzato e dimenticato.
Tuttavia, la nuova Guerra portava i bombardamenti, i mitragliamenti aerei. Lui sempre in una nicchia al margine, mentre gli umani-disumani forse facevano la storia e si massacravano. Spettatore passivo, ignaro e per tutti inesistente. Senza scampo condannato alla fatica, al lavoro, ai pasti magri, alla solitudine a essere dimenticato da tutto e da tutti probabilmente fino alla morte. Questa una storia vera, propedeutica e forse da monito per la società ipertecnologica del XXI° secolo a non abbandonare nessuno a prendersi cura dei più deboli.
Enzo Sossi