I politici del coretto “sono episodi estranei alla nostra pacifica società” partono in automatico per reati gravi, senza alcuna conoscenza storica dell'isola, come abbiamo visto. Ma immaginatevi se venissero trovate cariche esplosive in pubblico. I cultori del dogma “elbani brava gente” intonerebbero un coro verdiano, altro che coretto. E ancora una volta sbaglierebbero di grosso.
C'è stato un periodo dove gli animi erano talmente surriscaldati che si arrivò anche da noi a usare ordigni esplosivi. D'altra parte nei paesi minerari era relativamente facile sottrarre dalle polveriere panetti di dinamite e micce d'innesco.
Come abbiamo visto, lo sciopero del 1911 ha visto episodi molto gravi (e altri ne vedremo). I giornali segnalano assalti agli uffici della direzione delle miniere di Rio Marina, atti di sabotaggio e distruzione di impianti minerari, ma soprattutto atti dinamitardi. Il più grave fu ai danni di un dipendente della società mineraria, Attilio Garbaglia, reo solo di aver avuto un contraddittorio con l'esponente sindacalista Umberto Pasella, per persuadere gli operai ad abbandonare la lotta. Degli ignoti lanciarono una carica esplosiva contro il tetto della sua casa di Rio Alto, che fece danni all'edificio. L'anno dopo gli animi erano ancora accesi, dato che nel settembre fu compiuto un attentato dinamitardo alla casa del sindaco Specos, atto definito “vendetta di un forsennato”.
Un paese in cui la situazione era letteralmente esplosiva è Capoliveri. Il 1910 è un anno molto caldo, con una situazione politica di aperto conflitto. Il comune è commissariato e le cronache annotano una “mancanza di educazione politica”, che scadeva in “lotte a base di tagliamenti di viti, incendi di magazzini e di barrocci, rotture di cristalli ecc.”. Nelle elezioni di ottobre vincono i clericali, ma il clima è turbato dallo scoppio di una capsula di dinamite vicino la parrocchiale e la caserma dei carabinieri. La versione dei giornali è diversa: per il Corriere dell'Elba non si ebbe “nessun danno personale”, ma per la Difesa, il foglio dei cattolici, la parrocchiale fu “alquanto” danneggiata. Inoltre questo giornale lascia supporre che non si trattasse di un fatto isolato per la chiesa capoliverese, poiché in un numero di agosto parla già di episodi di “teppismo e vandalismo” contro di essa.
Come per Rio Alto, anche il 1912 capoliverese è un anno caldo. Nel dicembre un attentato dinamitardo viene fatto contro la casa di un certo Giusti. L'obiettivo è però l'ospite della casa, accusato di essere il “guardaspalle” dell'odiato direttore delle miniere Giacomo Mellini. Nel periodo del biennio rosso un ordigno esplose sul finestrino di un negozio, di proprietà di Assunta Signorini.
L'episodio più “leggendario”, di cui ancora oggi si fa menzione a Capoliveri, è la carica esplosiva trovata addirttura all'interno della parrocchiale, avvenuto forse nel 1913. I giornali dell'epoca ne fanno solo un accenno, molto probabilmente perché i carabinieri condussero le indagini con riserbo, per non esacerbare animi già fin troppo esaltati. Forse anche gli stessi periodici, che all'epoca non risparmiavano certo accuse e polemiche molto dure, quando raccontavano certi fatti gravissimi preferivano non calcare troppo la mano per non aggravare un clima già surriscaldato.
Ma, come spesso succede in questi casi, la fantasia popolare andò a briglia sciolta, aggiungendo esagerazioni a un fatto reale e arrivando alquanto gonfiate ai giorni nostri. Le versioni che mi hanno raccontato sono diverse. Mi è stato anche fatto il nome del dinamitardo, che non riporterò per non dare una colpa storica postuma a un uomo che non fu mai formalmente incriminato, e quindi non colpevole, come suolsi dire, al di là di ogni ragionevole dubbio. Alcune versioni sono più da film che da verità accertata, con un eroico don Michele Albertolli che stacca la miccia dall'esplosivo, quasi all'ultimo secondo, salvando i fedeli che gremivano la chiesa.
Comunque al di là di versioni romanzate o meno, rimane il fatto che nelle nostre società si aggiravano figuri che non avevano scrupoli a piazzare cariche esplosive in luoghi pubblici. Forse erano solo atti dimostrativi, tesi più a creare paura che vere e proprie stragi, ma rimangono comunque gravissimi e dagli effetti imprevedibili.
Anche sulle motivazioni c'è da discutere. C'era senz'altro la matrice ideologica, soprattutto anarchica, di scontro duro con i clericali e i reazionari, visti come disprezzati nemici di classe. Ma non è detto che c'entrassero anche motivi di ripicche, antipatie, vendette e faide, tipiche di quella cultura ancestrale elbana, che abbiamo già visto. Un modo di risolvere le cose per le spicce, anche terrorizzando e facendo del male se serve. O anche per spregio, vendetta o chissà che altro, come potrebbe essere per il caso citato ai danni della commerciante capoliverese. Non dimentichiamoci che all'Elba gli ideali politici erano spesso confusi, e la competizione per i comuni e gli interessi di famiglia e consorterie erano in stretto rapporto, come rilevava un osservatore acuto, il socialista livornese Giuseppe Emanuele Modigliani.
E noi siamo figli anche di questa società, puramente elbana, non frutto di terroristi religiosi stranieri o di estremisti ideologici continentali. Fatevene una ragione, politici (soprattutto di destra) cantori degli “elbani brava gente”.
Andrea Galassi