“Ma dimmi, sogni spesso le cose che dici oppure le hai inventate solo per scandalizzarmi”, canta Francesco de Gregori in una delle sue più belle canzoni. E sulla stessa stregua le anime candide mi chiedono: “Ma perché ce l'hai tanto con gli elbani?” E c'è chi mi chiede di rispondere agli attacchi che questa serie divisiva (e per fortuna che lo è!) suscita.
Facciamo invece una cosa migliore: una fenomenologia degli stessi attacchi per capire dove vogliono arrivare quelli che screditano questi articoli. Siamo arrivati a metà della serie, quindi prendiamoci questo intermezzo per noi, cari lettori attenti, care e vere amiche lettrici. Anche voi che mi criticate, ma con argomenti centrati e intelligenti. È anche una buona occasione per cercare di mettere in chiaro il senso di questa serie, e smascherare il gioco dei suoi detrattori.
Non risponderò mai a chi mi attacca sul personale: è il classico argumentum ad hominen, quello di chi non avendo argomenti da contrapporre sposta il bersaglio sull'autore. E lasciamo andare anche chi usa la tesi del “io non ho mai visto/conosciuto/appreso quello che dici, quindi è falso”: cioè la tecnica dell'argomento fantoccio, opporre l'opinione soggettiva ai fatti oggettivi. È inutile, cari detrattori, sulle tecniche psicologiche delle fallacie argomentative non me la fate.
L'accusa di generalizzare o fare qualunquismo è un colpo sotto la cintura, uno sparare a casaccio quando non si hanno argomenti o si fa finta di non capire. In alcuni contesti uso il termine generico di elbani perché lo impone la sintesi. E questo vale anche per il titolo della serie. È ovvio che per ogni caso di violenza si parla di minoranze di persone, e non mi sono mai sognato di dire che tutti gli elbani sono pessimi soggetti. Ma neanche posso specificarlo a ogni piè sospinto. Altrimenti, per esempio, la serie dovrebbe intitolarsi “Gli elbani, ma beninteso non tutti, possono legittimamente affermare di sé stessi essere in generale brave persone, ossia aliene a forme di comportamenti discutibili?”
Saremmo ovviamente al ridicolo doverlo affermare a ogni capoverso. Sta all'intelligenza dei lettori capirlo. E chi mi attacca con l'argomento del qualunquismo o della generalizzazione, lo fa solo per buttarla in caciara e indicarmi agli altri quale bersaglio da insolentire.
Altra accusa: “Come ti permetti, signor nessuno, di criticare il professor Preziosi?” Sarò chiaro: penso che Alfonso Preziosi sia stato uno dei più eminenti studiosi elbani, autore di pregevoli ricerche. Tanto che molti capitoli gli sono debitori. Che io sia un signor nessuno è vero, ma tirare in ballo Preziosi per attaccarmi è un altro colpo sotto la cintura, un pretesto per un'altra accusa senza argomenti.
Oltretutto critica a Preziosi non c'è neanche stata. Nel quinto capitolo infatti scrivo: “accettando il fatto che la maggioranza degli elbani si mostrasse tollerante”. Quindi do credito alla tesi dell'autore.
L'unica cosa che ho fatto è avanzare un punto di vista alternativo, per far riflettere chi leggeva. Invitavo semplicemente a provare a metterci nei panni di un ebreo o un valdese, dopo essere stati angariati, e chiederci se davvero potevano sentirsi in un ambiente accogliente. Se mi si risponde che la tesi di Preziosi è più convincente della mia, lo accetto. Se invece si usa l'indubbia autorevolezza di Preziosi come argomento/manganello non è più una critica, ma rissa.
E qui emerge il primo aspetto dei detrattori. Che un'amica, attentissima lettrice, ha centrato in pieno: questa serie è ancora una volta un racconto visto con gli occhi degli ultimi, gli emarginati, le minoranze. Ho inteso fare esattamente questo, ridare voce e dignità alla schiuma della terra. Solo che a differenza delle serie del passato, soprattutto “L'epica degli ultimi elbani”, questa volta gli ultimi e gli emarginati inchiodano le maggioranze alle loro pesanti responsabilità. E quando le maggioranze si sentono rinfacciare le loro colpe dagli ultimi, reagiscono in maniera scandalizzata e autoassolutoria. Ieri come oggi. Ecco spiegata in parte la ragione di questi attacchi stizziti.
Poi c'è l'altra parte della questione. Aristofane, padre nobile della comicità, ci insegna che la satira ha quattro bersagli: la politica, il sesso, la religione e la morte. Ovvero i quattro elementi che ci opprimono la vita, rispettivamente: il potere, i condizionamenti sociali, i condizionamenti culturali e la drammatica consapevolezza della fine della nostra esistenza. Per secoli essi sono stati gli strumenti per la gestione e il mantenimento del potere. L'unico antidoto a essi era appunto lo sberleffo. Il primo duro colpo è arrivato nel Settecento, con l'Illuminismo; il secondo nella prima metà dell'Ottocento, con le rivoluzioni borghesi.
Ma la spallata poderosa è arrivata tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, con le rivoluzioni popolari/marxiste/scientifiche. Nella seconda metà del Novecento (ed è tuttora in corso) è arrivato il colpo mortale, con le rivoluzioni culturali.
I conservatori dell'ordine hanno reagito allo sgretolamento del loro mondo con un volume di fuoco sempre più parossistico: in Italia con il fenomeno del clericofascismo, unito sotto il labaro del “Dio, patria e famiglia”. Ovvero la riaffermazione rabbiosa rispettivamente della religione, la politica e il sesso, con la morte a fare da jolly per tutte e tre.
Questo martellamento reazionario in nome di ciò che è stato spacciato per un'età aurea in dissolvimento, e quindi da proteggere (tra cui c'è anche il ruolo tossico del patriarcato, tanto per restare sull'attuale), si è fatto valore in buona parte della destra. Ma anche alcuni di sinistra, tali solo perché votano per la parte “più buona” e “giusta della storia”, spesso si adagiano conformisticamente a esso, anche solo in parte o con toni più sfumati, ma non meno fideistici.
Per questo i miei critici sono trasversali. Soprattutto per questo il capitolo che parla dei maltrattamenti degli animali passa pressoché inosservato, e quello in tema di intolleranza scatena una canea: il primo non mette in discussione nessuno di quei valori di cartapesta, il secondo smaschera l'impostura di uno di essi, la religione dominante.
Messi di fronte alla ciarlataneria ai detrattori manca il terreno sotto i piedi, e non possono far altro che scatenarsi contro chi dice che il re è nudo. E si attacca con le fallacie viste sopra per nascondere le vere ragioni. Per dire, l'offesa all'orgoglio elbano ferito è solo un pretesto, buono per scaldare i più ingenui ad azzannare il bersaglio, ma a bruciare veramente è il fatto di vedere andare in pezzi un mondo di valori deteriore e ormai irrimediabilmente condannato dalle suddette rivoluzioni culturali. O ancora, la debole critica che mi fanno quando uso il termine borghesia, ritenuto fuori moda: si sposta l'attenzione sulla sottigliezza semantica per svicolare dall'argomentazione che fa crollare i suddetti valori.
Parlando del suo capolavoro Accattone, Pier Paolo Pasolini disse che con il film aveva mostrato agli italiani il loro razzismo. Ovvero l'impostura di credersi buoni e tolleranti. Pur rischiando di essere immodesto, anch'io potrei dire che con questa serie sto mostrando agli elbani che siamo un popolo con aspetti oscuri e spaventosi al pari degli altri. O, ancor peggio, perché dico ai lettori quello che Stieg Larsson fa dire alla sua protagonista Lisbeth Salander: “Non esistono innocenti. Esistono solo diversi gradi di responsabilità”.
Non facciamo però il grave errore di considerare i detrattori come nemici: lo è solo il loro sistema di “valori”. Quello va abbattuto senza esitazioni, poiché ha fatto troppi danni, ma interagendo con spirito aperto e soprattutto instillando dubbi in coloro che ancora ne sono sottomessi, incalzarli per aprir loro le menti alla complessità del mondo, indagando e studiando a fondo in noi stessi, nella nostra storia e nel nostro presente. Come questa serie farà fino alla fine.