Una recentissima pubblicazione – edita da Persephone Edizioni e curata dal ricercatore Fabrizio Fiaschi nella collana Extabulis diretta dalla dottoressa Gloria Peria – getta nuova luce su molti aspetti della vita all’Elba durante lo scorcio del Seicento. Fabrizio Fiaschi ripercorre l’inedito manoscritto di un frate cappuccino, Giuseppe Gaburri, composto nel 1698 e intitolato «Relazione delle missioni e dell’isola dell’Elba», custodito a Londra nella biblioteca del British Museum.
Nel manoscritto Giuseppe Gaburri cita i ruderi di numerose chiesette medievali a noi già note, localizzate sui monti occidentali dell’Elba: «Si vedono ancora molte chiese sparse per il monte, rovinate al tempo dell’invasione de’barbari, dal che si deduce che il paese era molto popolato […], altra San Biagio nella montagna, altra detta San Benedetto, altra San Fridiano et altra San Bartolomeo, tutte chiese rovinate che non vi resta che le sante muraglie e la memoria per tradizione, avendo i popoli ancora per esse gran devozione».
Ma oltre ad esse il frate ricorda – con la sua notevole precisione e dovizia di particolari – altre tre piccole chiese ad oggi sconosciute: Sant’Erasmo, San Mamiliano e San Tomeo, poste nel versante meridionale del massiccio di Monte Capanne.
Sant’Erasmo. «Vi è una chiesina detta di San Francesco [Saverio] di gran devozione […]. Nell’istesso monte, verso Marciana, vi è la chiesina di Sant’Erasmo, anticha, che è il santo de’marinari, loro avocato al quale ricorrono nelle borasche […] et altri pur dell’isola, in occasione di oscurità e di tempeste, raccomandandosi a Sant’Erasmo hanno visto un lumicino per il quale sonosi condotti a salvamento». Riprendendo il fenomeno atmosferico dei «fuochi di Sant’Elmo» (dizione popolare di «Sant’Erasmo»), consistente in luminescenze che apparivano sugli alberi delle imbarcazioni a causa della ionizzazione dell’aria durante i temporali, Giuseppe Gaburri ricorda questa piccola chiesa elbana che ai suoi tempi era, a quanto pare, ancora in piedi. Ma dove si trovava esattamente la Chiesa di Sant’Erasmo? Come sempre, l’antica toponomastica dell’Elba corre in nostro aiuto. Presso la vetta del Monte Maòlo, sul vertiginoso spartiacque montano che intercorre tra il Monte Perone e il Monte Capanne, a ben 740 metri di altitudine, laddove svetta verso Sud-Est un’alta e meravigliosa rupe granitica composta da rotondeggianti «cote», le ottocentesche mappe del Catasto Leopoldino localizzano con precisione il toponimo «Sant’Èramo». Ciò è confermato da un regolamento per delimitare i confini dei pascoli montani scritto a Sant’Ilario il 22 novembre 1820 e conservato nella «Corrispondenza e affari diversi» dell’Archivio Storico di Marciana: «Dalla rupe che esiste nei beni degli eredi Scrocchi nella Piana di S. Eremo». Com’è possibile che «Sant’Erasmo» sia diventato «Sant’Èramo»? La risposta è abbastanza semplice, se pensiamo al paese molisano di Santeramo che in origine era Sant’Erasmo. Il toponimo elbano è comunque davvero antico: già nel cinquecentesco «Estimo di Sant’Ilario», anch’esso custodito nell’archivio marcianese, leggiamo che tra i beni di tal Bastiano Canata c’era anche «la sua parte delle terre a S.to Eramo». Ma perché questa chiesetta sarebbe stata edificata lassù, su uno dei più impervi luoghi dell’Elba, da cui la vista spazia sul mare a Nord e a Sud dell’isola? Potremmo forse ipotizzare che, essendo tradizionalmente Sant’Erasmo protettore dei marinai, da quella posizione tanto elevata il santo avrebbe potuto proteggere a 360 gradi gli antichi naviganti e le loro imbarcazioni. Se veramente la Chiesa di Sant’Erasmo fosse sorta nella Piana di Sant’Èramo, come appare assai probabile, ci troveremmo di fronte ad un vero primato: l’edificio di culto elbano posto a maggior altitudine dell’isola, seguito dalla Chiesa di San Frediano sui monti di Chiessi. Al momento, purtroppo, sulla Piana di Sant’Èramo non ci sono ruderi visibili; ma m’impegnerò, come scrisse l’archeologo Giorgio Monaco, a «farne ricerca» nella zona circostante.
San Mamiliano. Scrive ancora Giuseppe Gaburri: «Al tempo antico, che infestavano i turchi molto l’isola e che era meno abitata, mancarono la Chiesa di San Mamiliano e quella di San Tomeo, che se ne vedono poco più che le vestigie su’monti di questi castelli [San Piero e Sant’Ilario] et i beni sono dati alla Chiesa di San Pietro [San Piero]». Quest’altra chiesetta, che come scrive il frate era già un rudere nel Seicento, potrebbe essere identificata con il piccolo edificio sacro posto a 535 metri di altitudine presso le Piane al Canale, altopiano soprastante il paese di San Piero. La chiesetta era senza nome – «non nominata» la definì Vincenzo Mellini nel 1883 – ma nel 1964 l’archeologo Giorgio Monaco la chiamò convenzionalmente «Chiesa di Santa Maria», forse scambiandola con la «Santa Maria» delle cartografie cinquecentesche che però indicava la Madonna del Monte presso Marciana. Perché questa chiesa senza nome potrebbe essere identificata con la Chiesa di San Mamiliano, ricordata come rudere da Giuseppe Gaburri? Si tratta, naturalmente, solo di un’ipotesi; ma se pensiamo a quanto scrisse nel 1985 l’architetto Paolo Ferruzzi in «Versante occidentale dell’isola d’Elba. Testimonianze dell’edificazione religiosa dopo il Mille», cioè che la chiesetta delle Piane al Canale era «in diretto collegamento visivo con l’isola di Montecristo», potremmo affermare che, similmente alla scomparsa chiesa capoliverese di San Mamiliano e all’omonima chiesetta nella Piana di Campo – come ampiamente dimostrato nel 2010 (Gloria Peria e Silvestre Ferruzzi, «L’isola d’Elba e il culto di San Mamiliano») – il collegamento visivo con l’isola di Montecristo era motivato dalla presenza del potente Monastero di San Mamiliano, verso cui si «proiettavano» simbolicamente le chiesette d’Elba e Corsica titolate al vescovo palermitano Mamillianus.
San Tomeo. Come già ricordato, il frate cita anche questa chiesetta, di cui «se ne vedono poco più che le vestigie su’monti di questi castelli [San Piero e Sant’Ilario]». «Tomeo» è un’antica dizione toscana di «Bartolomeo», che all’Elba diviene «Tommeo»; basti pensare che gli abitanti di Pomonte chiamavano «San Bartommeo» la loro soprastante Chiesa di San Bartolomeo. Un toponimo «San Tommeo», che compare nelle «Denunzie fatte dai particolari per formare il Catasto del Comune di Marciana», risalente al 1806 e conservato all’Archivio Storico di Marciana, parrebbe indicare uno scomparso edificio sacro forse localizzato nella Piana di Campo e non sui monti di San Piero, come invece scriveva il frate Gaburri. L’unico toponimo dei monti occidentali che sia riconducibile a San Tomeo si trova, guarda caso, ad Ovest di San Piero ed è «Pra’di Tommeo», ossia «prato di Tomeo». Si tratta di un remoto crinale a 430 metri di altitudine, contraddistinto dalla presenza di maestose formazioni rocciose naturali (le cosiddette Cote del Pra’di Tommeo); una tradizione popolare ottocentesca, narratami nel 2013 dal pastore sanpierese Evangelista Barsaglini, trovava l’origine del toponimo Pra’di Tommeo nel favolistico ritrovamento di «un busto di granito e c’era scritto Tolomeo». Se sul crinale vi siano ruderi medievali – affogati tra cespugli di corbezzolo, scopa e cisto – sarà tutto da scoprire. Per adesso ci piace pensare che l’intitolazione della chiesetta all’apostolo Bartolomeo, protettore della medicina, potrebbe alludere ad una funzione ospedaliera o di ricovero temporaneo per gli antichi viandanti, similmente all’omonimo edificio posto nell’immensa solitudine montana tra Chiessi e Pomonte.