Nell'edizione di ieri abbiamo pubblicato un estratto del racconto di Garibaldi al Cavo a firma di Maria Gisella Catuogno.
Visto l'interesse dei lettori per l'argomento decidiamo di pubblicare il testo nella sua versione integrale come venne pubblicato su 'La Piaggia' diversi anni fa.
METTI GARIBARDI AL CAVO UNA GIORNATA DI FINE ESTATE...*
E’ il due settembre 1849 e sono quasi le tre di un pomeriggio tipicamente estivo: cielo terso, sole alto, vento teso di levante, mare mosso ma non troppo: una filuga con la sua vela latina punta sul villaggio del Cavo, detto anche di Capo Castello, per la torre d’avvistamento posta sul promontorio che più si spinge nel Canale di Piombino.
Gli occupanti sono: Paolo Azzarini, detto Ipsilonne, che “padroneggiava” la barca, abitante a Rio Marina, sebbene ligure di nascita; il padre di lui Giosafatte; il figlio Flavio di quattordici anni; G.B. Lupi di San Terenzo, paese natale dell’Azzarini; Remigio Lecori di Pitelli, un marinaio di Capoliveri e due fuggitivi, nell’occhio del mirino degli austriaci, dei papalini e delle guardie del Granducato di Toscana. Il più prestante nel fisico, rosso di barba e di capelli è Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, marinaio, generale, protagonista di mille battaglie; l’altro, agile e asciutto nel fisico, perciò chiamato da tutti Leggèro, è maggiore ed più garibaldino di Garibaldi. L’abbigliamento dimesso li fa assomigliare a due commercianti che cercano sull’Elba nuove piazze per i loro modesti prodotti. Garibaldi infatti “indossava un vestito da estate a righettino giallognole e bigie e conservava i suoi capelli fluenti, la barba invece non era molto lunga. Leggero vestiva una giacca marinaresca e aveva una scarpa tagliata di dietro per non premere sulla ferita e zoppicava. Parecchie cicatrici erano visibili sul corpo e alla testa.”**
Nel forte di Capo Castello, che pare la prua di una nave, stanno invece il sergente cannoniere Lorenzo Paoli***, di cinquant’anni, da Rio Castello, figlio di Leone e di Maria Cignoni, sposato con Rosa Allori e babbo di molti figli, soldato guardacoste come il padre nonché addetto al servizio sanitario, e il tenente Silvestro Specos, anche lui da Rio Castello, che di anni ne ha una diecina di più.
Col cannocchiale che scruta regolarmente il mare, com’è suo dovere, avvistano la barca di Ipsilonne, La Madonna dell’Arena, che conoscono da sempre, ma che in quella circostanza appare loro stranamente affollata. Che ospiti avranno a bordo? Si consultano: sanno bene chi sono in quel momento i ricercati, ma sanno anche per chi batte il loro cuore: la Repubblica Romana è caduta da due mesi, gli assediati si sono battuti come leoni e l’eroe dei due mondi ha intrapreso una rocambolesca fuga verso Venezia, nella quale ha perso la giovane moglie incinta. Sanno anche che “la trafila patriottica” ha permesso al generale di sottrarsi alla cattura e di arrivare sulle coste della Toscana. Che sia lui l’ospite di Ipsilonne?
Vedono che la barca punta la prua verso la spiaggia di San Bennato, vicino ai ruderi della chiesetta di San Menna e che, una volta giunta a riva, c’è un po’ di movimento intorno alla filuga; poco dopo, guardando più attentamente, contano sei persone invece di otto. Intuiscono che l’Azzarini ne ha congedate due per essere in regola con le carte. Il tenente Specos incarica Lorenzo di recarsi a San Bennato.
L’incontro del sergente con Ipsilonne è cordiale: scambio di battute – il vento, il mare, la pesca – e controllo dei documenti; il Paoli chiede chi siano gli sconosciuti scesi dalla barca che parlano ora a poca distanza da loro col pescatore Tommasino, che ha la casa proprio aldilà della strada confinante con la spiaggia.
L’Azzarini risponde che, oltre ai suoi conterranei, ci sono due merciai del continente che cercano agganci sull’isola per qualche piccolo traffico commerciale. Il sergente adocchia il gruppetto e in effetti gli sembra che il più alto e robusto abbia un volto noto, ma non dà voce al suo pensiero e rilascia ad Ipsilonne la patente di sanità necessaria ad entrare in altri porti; si congeda quindi cordialmente salutando con la mano il pescatore e le persone con cui si intrattiene. Poi si allontana sul suo cavallo riflettendo tra sé che forse quel pomeriggio ha avuto un appuntamento con la Storia, quella che gli piaceva tanto studiare nei pochi anni di scuola che gli sono toccati.
Intanto a San Bennato, Tommasino, che è generoso e cordiale di carattere, invita Paolo Azzarini e i suoi ospiti a mangiare un boccone da lui e a bere un bicchiere di vino: devono solo attraversare la strada! Tra l’altro è solo, la moglie è andata a trovare la vecchia madre e possono fare due chiacchiere insieme, prima di riprendere il mare.
Loro non se lo fanno ripetere due volte: hanno sete e fame, oltre che una grande stanchezza addosso. Nella modesta casa di Tommasino è tutto ordine e pulizia e, in più, indugia, nelle poche stanze che la compongono, un profumo di zuppa di pesce da far venire l’acquolina in bocca. Glielo dicono e allora il pescatore non ci pensa due volte: invece di offrire pane e formaggio, come aveva previsto, sacrifica la cena per quella gente. Gli ospiti protestano, ma non c’è niente da fare: sua moglie, che è una brava donna, capirà.
Accende il fuoco, apparecchia, taglia il pane a fette, ci struscia sopra aglio e peperoncino, lo distribuisce nelle scodelle e mette la casseruola col cacciucco a scaldare. Intanto l’uomo rosso di capelli – lui non si ricorda più il suo nome, eppure Ipsilonne glielo aveva detto! – chiede del paese: che fanno, quanti sono, come si vive. Tommasino gli risponde che il Cavo è una campagna, fatta di modeste case coloniche, che non arrivano a una cinquantina di persone, fra contadini e pescatori, che manca tutto, ma che lui ci sta bene, perché è un posto ridente e l’aria profuma di fichi maturi, specie in quella stagione. E aggiunge che se vorranno tornare con un po’ di mercanzia da vendere, sicuramente troveranno dei clienti, sebbene modesti. La merenda è deliziosa e gli ospiti non si stancano di elogiare la bravura della cuoca.
In compagnia il tempo passa veloce: l’imbrunire si avvicina e l’Azzarini ha premura d’andarsene. Gli ospiti si congedano abbracciando il pescatore, che insiste perché accettino altro pane per il viaggio e un paio di fiaschi di vino.
Quando cercano il largo, la filuga scivola sulle onde che sembrano seta, il sole è tramontato da un pezzo e l’azzurro del cielo si sta arrendendo alla sera.
Puntano su Capraia, per poi andare a Livorno. Decidono d’alternarsi al timone, per riposarsi, a turno. Il mare lo conoscono bene tutti.
I pensieri del generale saltellano come passeri sul ramo, dalla sua Anita, col piccolo in grembo morto con lei, ai figli che vivono al sicuro con la nonna: Menotti di nove anni, Teresita di quattro, Ricciotti di due. Che penseranno di lui quando saranno grandi? Lo accuseranno di non essersi goduto la loro infanzia e forse anche d’aver ucciso la loro povera mamma?
Scaccia come insetti molesti quei pensieri, che di tanto in tanto lo affliggono… e adesso che farà? Se la scamperà, come sembra, resterà a tentare altre vie per l’Italia una, libera e indipendente come predica da trent’anni il suo amico Mazzini o ritornerà in America mettendo l’oceano tra sé e i suoi sogni patriottici?
Intanto mentre il cielo si riempie di stelle, si ricorda che sono passati due mesi dalla caduta di Roma: quanto sangue, quante sofferenze, quanta morte! Tenendo ben saldo il timone, getta uno sguardo sui compagni d’avventura che dormono sul fondo della barca con una copertaccia addosso: i patrioti liguri, quel capitano marittimo che ha messo a repentaglio la sua sicurezza per salvarlo, suo figlio Fulvio, che gli fa tenerezza, e al quale prima del sonno ha detto, cercando di dare ali alle sue speranze: “Quando avrai vent’anni succederà una nuova storia”; e infine Leggero, che darebbe un braccio per lui… si merita tutta questa fiducia, tutto questo affetto?
Le ore passano, il buio cede il posto alla luce, che si fa sempre più forte: arrivano a Livorno a mezzogiorno e decidono di tenersi davanti alla fregata americana ancorata in porto: se il “Giglio”, il piroscafo della Marina Granducale, li intercetta, fanno in tempo a chiedere asilo a bordo.
Ma non ce n’è bisogno: tutto fila liscio come l’olio. Si sfamano con pane e acciughe, quelle che Ipsilonne tiene a bordo e bevono il vino del Cavo. “Un mangiare magnifico” assicura il generale. A notte alzano la vela in direzione nord e alle cinque del mattino, quando Venere già è sorta, scorgono il promontorio di Portovenere baciato dal chiarore. E’ la salvezza.****
Maria Gisella Catuogno
* Il racconto è liberamente ispirato alle pagine di Umberto Beseghi Il Maggiore “Leggero” e “il trafugamento” di Garibaldi Edizioni S.T.E.R.M 1932 e al CORRIERE DELL’ELBA del 22.6.1879 n.110.
** descrizione tratta dalla prima opera sopra citata, pag.148
*** Lorenzo Paoli, nato a Rio Castello il 10 marzo 1799, era il primo dei sette figli di Leone Paoli e di Maria Cignoni. Come il padre, era un soldato della Compagnia di Artiglieria Insulare Guardacoste in servizio di controllo sanitario alla torre di avvistamento di Capo Castello al Cavo, che era al comando del Tenente Guardiacoste Specos.
Risulta soldato guardiacoste il giorno del suo matrimonio con Rosa Allori il 4 Settembre del 1821 ma caporale nel censimento del 1840.
Con il grado di sergente cannoniere svolgeva probabilmente il ruolo di secondo in comando di quel distaccamento, quando il pomeriggio del 2 settembre 1849, tra le ore 14 e le 15, avvistò una “filuga”che prendeva terra sulla spiaggia di S. Bennato al Cavo.
**** Come ricompensa del buon esito dell’impresa, “Garibaldi regalò all’equipaggio uno zecchino (14 lire) e all’Azzarini voleva dare 12 o 14 papaline d’oro, l’unico danaro che gli rimaneva in tasca, ma il marinaio non lo volle, accettando però di buon grado il noto certificato che riprodusse in questa sobria relazione dell’avventuroso viaggio: Di buon mattino –scrisse l’Azzarini – imbarcai l’eroico generale Garibaldi e mi diressi all’isola d’Elba. A Capo Castello sbarcai mio padre e un marinaio di Capoliveri perché ci fosse sempre il numero. Il Deputato di Sanità mi firmò abusivamente la patente, e alla sera feci vela per il golfo della Spezia. All’indomani, a mezzogiorno si era giunti in vista di Livorno, ove si vedevano passeggiare le sentinelle tedesche, e il giorno dopo giunsi felicemente a Porto Venere. Colà sbarcai Garibaldi con Leggero. Garibaldi mi diede per ricompensa un piccolo scritto di sua propria mano che conservo come la pupilla dei miei occhi; esso era così concepito:
“Il padrone Paolo Azzarini che la fortuna mi fece incontrare in terra italiana dominata dai Tedeschi, mi ha trasportato in questo luogo d’asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente e senza interesse. G.GARIBALDI”.
(da Umberto Beseghi, op.cit. pag.149)