Di porte e di persiane pitturate di verde, porte e finestre di case, di magazzini e di baracche, nella piana di Campo ce n'erano non so quante, fino alla memoria mia. La memoria di un vecchio glicine, d’un pollaio e d'un magazzino o cantina dove si tenevano anche piccole botti di vino, perché se ne faceva poco. Quell'odore di vinaccia e polvere dei vecchi magazzini, che non m’andrà mai via dalle narici del cervello; il decrepito interruttore con la levetta, e i fili intrecciati scoperti da pigliarci una scossa letale o da dar fuoco a ogni cosa. Il piatto smaltato con una lampadina d’anteguerra, piena d’insetti spiaccicati e di ragnatele fino all'inverosimile. Ecco, la porta di legno di quel magazzino era pitturata di verde, e la mia età era persino più verde della porta.
Uscirono da una di quelle porte, marito e moglie che recavano lo stesso cognome sebbene non fossero neppure parenti alla lontana, e fecero il percorso di tutti gli emigranti: prima Genova, poi le Colonne d’Ercole, poi lo Stagno delle Papere (così i francesi chiamano l’Oceano Atlantico, La Mare aux Canards), e infine l'Argentina. L'anno era il 1935; tredicesimo, anzi “XIII”, di un’Era di cui non ricordo l’appellativo preciso. Lei apparteneva alla mia famiglia; lui veniva invece da un altro paese dell’Isola ed era stato, perlomeno fino al matrimonio, di quella specie di latin-lover di campagna che ne raccontano dieci riuscendoci in una, la quale una si fa -naturalmente- sposare.
Non che non fosse un bel ragazzo; tutt’altro. Era carina pure lei, nonostante la statura un po’ bassa in una famiglia in cui siamo, o fummo, quasi tutti discretamente alti. La pietra di paragone era uno zio; o meglio un parente che, non avendoci il sottoscritto mai e fieramente capito nulla nelle parentele e nei relativi gradi, chiamavo “zio” (così come i familiari più giovani erano tutti “cugini”). Cosicché, quando verso i quattordici anni stavo venendo su un brindellone esagerato, alto come un lampione, secco come un uscio e sgraziato come un elefante in un negozio di porcellane, chiunque m’incontrasse mi diceva: “Ma te diventi più alto di zio X !”. E infatti mi ci volle poco: a sedici anni ero alto un metro e novantaquattro e lo zio X mi faceva ciao ciao con la manina laggiù dal basso. Ma mi sono fermato lì, gettonatissimo comunque fin da allora per cambiare le lampadine senza prendere la seggiola o lo scaleo.
In anni più lontani, quando non ero nemmeno en las pelotas de mi padre, pare arrivassero lettere da luoghi dai nomi fantasmagorici, rutilanti, cervanteschi. Mendoza, dove prima si erano stabiliti, lei a servizio di una signora pure di origine italiana, lui a fare il sarto a domicilio e, in realtà, una specie di tuttofare perché sapeva fare un po’ tutto. Da Mendoza si trasferirono poi a Rosario. In Argentina non c'era la guerra; e fu là, dall’altra parte del mondo, che li raggiunse la notizia della morte in mare di un altro mio zio, che poi era uno dei fratelli di mia nonna.
1° dicembre 1941: il cacciatorpediniere Alvise Da Mosto naviga da Napoli a Tripoli per scortare la motonave cisterna Iridio Mantovani, carica di 8500 tonnellate di carburante. Attacco della Royal Air Force, prima alla nave cisterna, e poi al cacciatorpediniere che la aveva presa a traino. Tutto fu chiuso dall’attacco combinato di due incrociatori e da un cacciatorpediniere della “Forza K” britannica: il Da Mosto e la motonave Mantovani colarono a picco, e 138 marinai italiani scomparvero in mare. Tra di loro, quel mio zio., che aveva ventidue anni, gli occhi chiari e una fidanzata di diciassette anni che quasi impazzì dal dolore. Ha il suo nome sul monumento ai caduti giù in paese, in una piazza intitolata ad una certa Vittoria, che doveva essere una gran bella ragazza con le ali e appassionata di serti d’alloro, talmente bella da farne cadere un bel po’, di giovani.
Intanto quei due zii, quelli dall’altra parte del mondo, stavano per cambiare ancora luogo di residenza: prima a Mar del Plata, dove restarono fino al 1948 quando la casa dove abitavano andò bruciata, e loro si salvarono davvero per il rotto della cuffia da una morte orrenda. Aveva preso fuoco una cosa che da noialtri manco si sapeva che esistesse: il televisore. Mi raccontava un’altra delle mie incalcolabili zie, che nelle lettere dovevano spiegare che cosa fosse quell’oggetto misterioso, e che per rendere l’idea dicevano che era “una radio che si vedeva”, definizione assolutamente inappuntabile nella sua semplicità. Le lettere cominciavano a essere scritte in un’italiano frammisto di spagnolo scritto però all’italiana; due soldi e giovinezza andata via, e nessun figlio. Non ne ebbero, o non ne vennero. O non ne vollero.
Poi, alla fine, arrivarono a Buenos Aires. Da Campo a un’immensità di metropoli, nella cui area sarebbero entrate, chissà, cinquanta Isole d’Elbe. Dalla Capital Federal arrivò, dopo tanti anni, una fotografia; se l'erano andata a fare in un vero "atelier", mettendosi i vestiti della domenica e disponendosi in posa. E' l'unica immagine che ho, nella memoria, di quei due miei zii in Argentina. Ne tenevano una copia incorniciata a casa loro, dopo tornati, su un mobile vicino alla porta d’ingresso; ed è strano, o forse no, come i luoghi cambino l'aspetto delle persone. Avevo in testa, nel naso e nella bocca le facce elbane della mia famiglia, facce che sapevano di muri a secco, di minestra di pesce, di comari nel portico, di rughe profonde e di granito, e nella fotografia c'era invece una coppia di argentini nati e spiccicati, oramai maturi. Lui coi baffi, naturalmente. Il vestito scuro, la cravatta e quella serissima e fiera espressione ispanica che riconduceva non più a un nome campese, ma a un Mendizábal, a un Arroyo, a un Ortiz. Lei, ancora di più. Una doña già pingue, con una pettinatura spagnolesca, in un paese dove si mangiava. La foto è del 1954.
La lettera che avevano spedito allora, e che accompagnava la foto, potrebbe essere, credo, un documento storico in piena regola. E’ un vero e proprio panegirico di Juan Domingo Perón, e, soprattutto di Eva Duarte, la famosa Evita che era già morta da un paio d’anni e che era diventata pressoché una santa, venerata da buona parte del popolo argentino. Erano diventati peronisti arrabbiati, i miei zii. Due zii peronisti mica ce li hanno avuti tutti; si può avere, o avere avuto, gli zii fascisti, comunisti, liberali, democristiani, quel che si vuole, ma peronisti è una cosa un po’ più particolare e che contribuisce a creare la mitologia familiare, nonché scontate battute sul monte Perón. Fatto sta che, circa un anno dopo, il 16 settembre 1955, Perón fu cacciato fuori con un colpo di stato guidato da un generale dall’oltremodo ispanico nome di Eduardo Lonardi (figlio di un emigrato di Ospitaletto, provincia di Brescia). E insomma, i miei due zii se n’erano andati via dal Pradarighetto, dalla Bonacceta o dalla Martinaccia per andare a beccarsi un autentico golpe sudamericano, un pronunciamiento militare in piena regola al quale fu dato il pomposo nome di Revolución Libertadora. E si ritrovarono presieduti da un bresciano di provincia.
Si mise piuttosto male. La revolución sarà stata anche libertadora, ma a loro li “libertò” quasi subito da una parvenza di benessere che s’erano sudati. Lavori persi a ripetizione. Niente più foto negli atelier; si diradarono anche le lettere. Finché, nel 1965, trent'anni dopo la partenza, decisero di tornare all'Isola d'Elba. Non ce la facevano più, ma non per nostalgia (da ricchi o da poveri, fa lo stesso). Non ce la facevano più a campare. Percorso inverso. Lo Stagno delle Papere all’incontrario. Le Colonne d’Ercole. E Genova, dove qualcuno della famiglia era andato a prenderli. Io avevo due anni. Ma se ghe pensu…
Quand'io li ho conosciuti, o inizio a ricordarli, erano già vecchi. Erano andati a stare al Vapelo, in una vecchia casa proprio all’inizio della salita del Salandro che mena in Galenzana, con il gabinetto esterno sporgente puntellato al muro con due sbarre di ferro (come quello che, in un indimenticabile racconto di Goffredo Parise, crolla -con relativo cacante in trono- mentre sta passando il corteo di rappresentanza durante una visita del Duce in un paese veneto). E me la ricordo, quella casa, piccola, piena di odori, la radio, e loro lì dentro. Mi ricordo le scale ritte, nonostante abitassero solo al primo piano. E siccome quella casa esiste ancora, certo un po’ rifatta ma è sempre lei, mi ritrovo a ripassarci sotto in quei pochi giorni all’anno in cui torno all’Elba.
Ci andavo spesso perché mi piaceva sentirli parlare. Soprattutto lei aveva preso quella parlata mezza spagnola, e una lingua non è soltanto parole. E' accento. E' musica. E' una diversa tensione e cambia la voce. Così avevano preso a chiamarla la “Titta”, per via dei frequenti diminutivi spagnoli in "-tita" o "-ita" che usava, una preguntita, una cosita. Lui, col tempo, era rimasto paralizzato alle gambe. Se ne stava tutto il giorno a sedere al tavolino, a becchettarsi con lei che doveva far tutto, lavare, preparare da mangiare, fare la spesa, metterlo a letto. Credo che avessero cominciato a odiarsi quietamente con amore, come spesso accade tra due vecchi che hanno passato la vita insieme, ed uno dei quali dipende interamente dall’altra. A lui erano rimaste solo le braccia e le mani, che aveva davvero forti come un toro; una volta, mi ricordo, mentre lui "faceva le forze" con me (che, ovviamente, perdevo sempre), lei gli urlò qualcosa, così, fulminandolo a bruciapelo, senza avvisaglia. Me lo ricordo quel che gli disse, ma non voglio ripeterlo; aveva a che fare con le condizioni fisiche di quel pover’omo. Lui aveva biascicato qualcosa. Poi era rimasto zitto. Lei se n’era tornata nel cucinino a preparare la minestra, come se niente fosse; io, invece, mi sarei volentieri rintanato nel primo pertugio disponibile.
Ad un certo punto avevano scoperto quelle prime polverine chimiche dal finto sapore di cioccolata, che si scioglievano nel latte caldo per fare colazione o merenda, gonfie di zuccheri e altamente diabetogene come tutte quelle schifezze; lui, in particolare, ne consumava in quantità industriale. La glicemia gli dovette schizzare a cinquecentomila, uno dei primi esempi di suicidio al Nesquik. E' morto nell'ottantacinque, il giorno di Pasquetta. Lei, il giorno di Pasqua del novanta. Da un paio d’anni le avevano fatto lasciare quella casa, al primo piano, con una rampa di scale troppo ripida, e la avevano sistemata a San Piero in un bilocale comunale dove godeva anche d’un po’ d’assistenza. Si usciva e si vedeva un panorama da far venire i bordoni, tutto il golfo di Campo, persino Montecristo e le cime della Corsica nelle giornate più limpide; ma per me era restata in quella casa sulla salita del Salandro, col cesso sporgente che adoravo, per il quale bisognava uscire sul pianerottolo. Non ci sono mai più rientrato, nemmeno per le scale. Non so nemmeno chi la abbia comprata. Credo che ora venga affittata ai turisti per le vacanze: da Perón a Airbnb il passo è stato breve. Una volta, dal portone, mentre passavo, ho visto uscire una delle famiglie più bionde della Storia, una di quelle dove doveva essere biondo anche il gatto.
Qualcuno dice che il nome “Salandro” sia addirittura d’origine greca, e che derivi da θάλασσα ἀνδρῶν, “mare degli uomini”. Ho qualche dubbio, che credo ragionevole; immaginarmi i tre Salandri prima di Galenzana con una denominazione talmente altisonante, quasi omerica, mi rimane un po’ difficile. Ma non si sa mai; se quei due miei zii eran finiti dall’altra parte del mondo attraversando l’oceano, potrebbe essere anche capitato Ulisse dalle parti di Galenzana, e magari Nausicaa era una ragazzina che aveva visto in cima al Crino mentre la fedele Penelope lo aspettava a Itacapraia. Il mare, in ogni epoca, è, in definitiva, una porta.
Le porte, e anche le persiane, le pitturavano con quella vernice verde spessa, da legno, che a un certo punto, calefatta dal sole, si enfiava in irresistibili bolle che facevano “plopp” e si staccavano in pezzi enormi che venivano via facilmente con un dito. Era uno dei miei principali e solitari divertimenti da ragazzino, per il quale mi sono beccato anche qualche non indifferente manrovescio sul grazioso faccino perché toccava riverniciare tutto daccapo e qualcuno minacciava di pigliare il barattolo della pittura e di rincappellarmelo in capo. Sarà stata verde, quasi di sicuro, anche la porta dalla quale quei due zii uscirono novant’anni fa. E poi, anche se non era verde, era sempre una porta che conduceva alla fine del mondo, attraverso il Mare degli Uomini.
Riccardo Venturi