L’immenso potere che risiede nel cinema è indubbio.
Forse più delle altre, la settima arte è capace di suscitare nell’inconscio di chi guarda un risveglio interiore che riesce ad alterarne profondamente la sua condizione mentale, scardinarne le convinzioni. Non parlo di semplice commozione, più di una Sindrome di Stendhal che rattrappisce la parola, facendoti rimanere di fronte allo schermo come un pesce fuor d’acqua per interi minuti, ore, ben oltre la fine dei titoli di coda, quando persino il nero della pellicola si è esaurito; opere di cui puoi fornire un’opinione solo dopo molto tempo, quando queste sono entrate dentro di te, legandosi in qualche modo al tuo vissuto.
Credo fermamente (non potevo e non potrò mai più chiederglielo) che anche David Lynch pensasse questo.
Un artista che per tutta la sua carriera ha analizzato la mente umana, giocando con i sogni, il non detto; con luoghi della psiche in cui risiedono le più profonde, inspiegabili pulsioni, sedi delle emozioni più vere trasformate in sale cinematografiche, camere oscure in cui guardarsi dentro, riflessi nei personaggi, nei dialoghi, nelle ambientazioni.
Una filmografia fatta di commenti velati ma esistenziali rispetto ad una società, quella Americana, dove la facciata, le finzioni, quindi anche il cinema stesso, superano per importanza la realtà; di quella terra dei desideri, di Hollywood, delle star irraggiungibili, che nasconde un sistema corrotto e marcio, da cui lo stesso regista ha deciso di allontanarsi, consapevole di essere distante dai canoni di commerciabilità dell’industria.
La sua morte mi ha lasciato un vuoto immediato, generandomi la stessa condizione che ho descritto prima, in quanto la ritengo tristemente inspiegabile ed inaccettabile, nonostante ormai fosse vecchio e soffrisse di un grave enfisema che aveva precluso ogni eventuale possibilità di ritornare in sala e perché, dato che avevo ancora molto da esplorare della sua produzione, speravo di poterla terminare con la consapevolezza di vederla forse, un giorno, espandersi nuovamente.
Allo stesso tempo, però, mi riporta ad un ricordo curioso, legato alla prima volta che ho visto un suo film, Mulholland Drive (2001).
Lo iniziai a guardare una sera, intorno alle 23; sapevo che, parallelamente ad una critica che lo esaltava come uno dei migliori lungometraggi della storia, esisteva una ampia fetta di pubblico che, criticandone la sua natura prolissa ed inutilmente incomprensibile, utilizzava per descriverlo espressioni taglienti e colorite legate al mondo delle feci e dei testicoli.
L’ora tarda e l’innegabile condizione di sonnolenza rappresentava quindi una sfida, piuttosto egocentrica, alla massa: mi ripetevo che non mi sarei addormentato, che lo avrei capito, in barba a chi lo accusava di essere sopravvalutato.
Chiusi gli occhi a circa metà del film per, giuro solennemente, pochi minuti. Dopo averli riaperti guardai la barra di scorrimento, scosso dal dubbio ancestrale di aver ceduto al sonno, di essermi pugnalato con la stessa spada (tratta) con cui difendevo un regista così incompreso, senza neanche conoscerlo veramente.
Era passata mezz’ora, ma io asserivo e dimostravo di ricordarmi tutto quello che era successo, di non essermi in realtà perso nulla: avevo assunto il film per induzione, solo attraverso l’audio e le ansiogene musiche e, come sostenevo e giuro ancora ora avevo, tenetevi forte, viaggiato nel tempo.
Un occhio più cinico riderà sgranando gli occhi leggendo di quest’esperienza che vedrà, anzi, come conferma della curva che considera i film di Lynch solo esercizi di stile truccati da visioni oniriche o trip lisergici.
E forse, va bene anche questo.
Il suo cinema ha sempre nascosto un’ironia di fondo, la stessa che si sviluppa accettando che la vita è, per la maggior parte, incontrollabile ed inspiegabile.
Un’ironia che adottava accettando che i suoi film fossero indecifrabili ai più, ammettendo che il modo migliore per scrivere una sceneggiatura fosse utilizzando cartoline pescate casualmente contenenti intestazioni di scene; ironia che mostrava nei suoi ultimi video pubblicati sui social: micro aggiornamenti che esulavano dal cinema e che riguardavano la sua vita o, semplicemente il meteo.
In uno di questi indossava occhiali da sole scuri che gli avrebbero permesso di ripararsi da un futuro “molto luminoso”.
Non so se lo sia o meno ma, sicuramente, il cinema, il 16 gennaio 2025, ha perso una delle sue stelle più luminose e l’avvenire di quest’ultimo ha assunto tinte più ombrose ed opache: una coltre di fumo in cui Lynch non avrebbe esitato ad inserire un nano che parla al contrario, una donna dalla testa bitorzoluta, o un poliziotto pronto ad affrontare il sovrannaturale.
Riccardo Forbicioni