Febbraio è forse il mese più freddo per l’Elba. Lo sa bene il francescano piemontese Guglielmo Della Valle, scrittore nato nel 1746 che aveva curato un’edizione delle «Vite» di Giorgio Vasari e che nel 1784 si trova bloccato dalla neve a Marciana. Per questo il dotto Guglielmo, il cui diminutivo è «Memmo», scrive al cardinale Vitaliano Borromeo che si trova a Roma: «Sono ormai quindici giorni che io sto nell’isola dell’Elba, senza averla potuta scorrere da naturalista. Le nevi qui pure oltre il solito copiose e il freddo mi tennero prigione per undici giorni, ne’ quali feci una vita veramente pittagorica.» Guglielmo osserva la nevosa vetta del Monte Capanne, che a sentir lui era una montagna senza nome. Passano i giorni, l’aria si fa più tiepida grazie al vento meridionale e Guglielmo, il 20 febbraio, decide di salire sulla montagna: «Appena lo scilocco sgombrò dalla falda de’ monti la neve, volli superare il giogo del più alto, e mi riuscì l’impresa in compagnia del gentilissimo signor don Sebastiano Paolini Sardi di Marciana. E siccome il monte creduto da molti inaccessibile non aveva nome, se non dalle capre che lo frequentavano, gli ho imposto il mio, e con vostra buona licenza (…) chiamarollo il Monte Memmo, e di quassù vi scrivo. Tanto più che da quest’altezza l’Eccellenza Vostra è nel mio concetto lo stesso rispettabile cardinal Borromeo.» Il francescano rimane estasiato: «Che bell’orizzonte vi si gode! Non saprei dirvi quante idee mi si affacciano alla mente; mi pare di esser uno di quei vecchioni della sinagoga trasportati da Filelfo in una solitudine per tradurre nel greco i libri della Sacra Scrittura; e mi pare d’acquistare da questa altezza una certa superiorità. Credo opportuno lasciar la mente in questo inganno, essendomi proposto di darvi un giudizio esatto il più che per me si possa degli scrittori dell’arte, relativamente alla mia storia.»
Lo stupore di Guglielmo per questo luogo è indescrivibile: «Vi sono altri monti meno alti che pure volli osservare, come è quello di Monte Giove, dove alcuni vorrebbero che vi fosse stato anticamente un tempio». Ha però chiaro che lassù c’è ben poco (ancora non si sapeva che quel «Giove» derivava non dal Padre degli Dèi ma da «iugum», «giogo montano»), tant’è che «…non solo non vi trovai alcun vestigio di esso, ma neppure il luogo capace di tale edifizio; perché la sommità del monte è tutto ingombra da certi massi sterminati di granito che vi sembrano posti dalla natura o in qualche rivoluzione della medesima in quel modo scomposti. Per la via però si vedono due di quegli scherzi accennati dal Vasari, cioè in tal modo sono tagliati due grossi pezzi di granito che di lontano uno sembra un Uomo e l’altro un’Aquila.»
L’incanto che visse Guglielmo verrà poi trascritto nelle sue «Lettere sanesi sopra le belle arti», ultimate nel 1786.
Silvestre Ferruzzi