“E l’Italia giocava alle carte, e parlava di calcio nei bar …”. Sì, suonano un po’ datati i versi di Giorgio Gaberscik, magari oggi, mantenendo la metrica, si potrebbe parafrasare “E l’Italia giocava a burraco, e parlava di calcio sul web”, ma in fondo il prodotto finale non è molto dissimile.
Il fiume di gente vociante, odorante dolciastro di creme doposole, in cui sono immerso in una serata campese, le luci del baraccone, per strana reazione, mi portano lontano, a ragionare su un TG appena visto, su quattro bimbi dilanianti, come tanti altri, da una bomba israeliana “intelligente e chirurgica”, mentre stavano a giocare, su altre centinaia di cadaveri piovuti dal cielo seminati nelle campagne del “granaio degli Zar” e chiusi in lugubri sacchi di plastica nera, e su altri seminati nel nostro mare, galleggianti o asfissiati nel ventre putrido di un marcio barcone, morti neri di serie C, che ormai, solo se sommano a due dozzine pro-die, possono sperare di far capolino (in quarta o quinta notizia) nei titoli di testa, mentre di altri vicini massacri in atto in Siria ed in Irak non si parla proprio più.
In compenso grande spazio è stato dato dai vecchi trombettieri delle loro nuove maestà agli sciagurati frutti del “Patto del Nazareno”, che ci regalerà un senato deciso e nominato dai padroni dei partiti, che l’appecorato (per non dire appecorinato) popolo italico, dovrà votare senza poter scegliere chi li rappresenterà, senza accorgersi che sta digerendo un altro punto del programma della P2 che giunge a compiersi.
Ma che parlo a fare di P2 quando la maggior parte di quelli che “s’interessano di politica” – magari sparando micidiali cazzate e insulti sul web – non sanno nemmeno cosa sia stata (e temo cosa sia)?
Mi rifugio in un angolo affollato (ma più umanamente) dove un gruppo di ragazzi fa buona musica in modo originale: “A caballo vamos pal monte” di Compais Segundo, giusto per un po’ di utopia cubana, e anche un po’ di utopia libertaria: “La casa è di chi l’abita/ è un tristo chi lo ignora/ il tempo è dei filosofi/ la terra di chi la lavora” I ragazzi hanno sostituito “tristo” con “vile” ma l’effetto skapestrato è comunque assicurato, e nella terra di Pietro Gori, d’obbligo.
Sgancio progressivo dalla festa prima salendo su quelle scalette della Marina di Campo che fu, affettuosamente ricordate nel libro di Ornella Marmeggi, fino alle sedie di un bar tranquillo a trenta metri dal casino. E poi il ritorno all’auto parcheggiata nei piani distanti, con le musiche e i vocii che giungono progressivamente più ovattati.
In auto allontanandomi racconto alle mie compagne di viaggio, alla ragazza di quindici anni in particolare, la memoria di questo posto, una fotografia in bianco e nero, ma rimastami in testa con vividi colori, scattata mentalmente mezzo secolo fa, quando avevo giusto la sua età, in questo territorio meraviglioso, su questo golfo unico, poi massacrato dallo “sviluppismo miope”, dall’avidità cementizia, mostrandole i campi “dove osavano le pecore”, la piana dell’abominevole (finto) piano di edilizia economica e popolare, la forzata inseminazione di casupole e villette civettuole, solo in parte celate dal pietoso cappotto della notte, citando mio padre, classe 1902: “I vecchi costruivano sui poggi e sullo scoglio, questi scemi nelle valli e sulla mota dove ci stanno bene altro che i granocchi, tanto poi l’acqua va sempre in giù, e dove c’è stata prima o poi ci torna..”
Già prima o poi, speriamo poi-poi, ma all’alluvione prossima ventura, sputate pure in un occhio a chi parlerà di fatalità di destino cinico e baro, piangendo, ma come caimani del territorio, dopo l'abbuffata.
Intanto si faccia festa, tintinnino i registratori di cassa, viviamo nel migliore dei mondi possibili, in più in un’isoletta verde blu felice. O no?