Ci sono alcune partite, nel calcio, in cui l’arbitro farebbe bene a fischiare la fine, indipendentemente da quanto manca e non necessariamente a risultato acquisito.
Sentite questa storia (vera) e provate a dire di no. Una volta tanto, episodi di violenza o razzismo non c’entrano niente e vi sembrerà assurdo, a giudicare la lunghezza di questo racconto, ma i fatti di seguito descritti si sono svolti in un minuto o poco oltre.
Abbiate pazienza, ma di tagliare qualcosa non se n’è parlato nemmeno, non sarebbe stato giusto.
A Procchio, in terza categoria, qualche annetto fa in una giornata uggiosa.
Quella domenica eravamo contati più del solito e l’allenatore fu costretto a schierarsi in campo, pena inferiorità numerica sin dall’inizio.
L’allenatore Andrea Lupi, all’epoca ultraquarantenne, quell’anno (e solo quello) era incredibilmente smilzo, insomma seppur brizzolato era molto più che presentabile.
Si assegnò la maglia numero 8, niente da eccepire nemmeno se avesse indossato il 10, il tocco di palla era sempre quello di una volta, vellutato. Ma, viste le circostanze, indubbiamente sprecato.
Era una partita tranquillissima, stavamo 1 a 1 e mancava una mezz’oretta alla fine quando accadde il fattaccio: al limite dell’area avversaria un mediano fece un’entrata assassina proprio su di lui.
In condizioni normali sarebbe scoppiata una baruffa, sarebbe volato come minimo qualche gollettone; invece no, quelle non erano condizioni normali.
Vedere il nostro allenatore a terra afflitto dal dolore, mezzo morto, agonizzante, scatenò una imprevista reazione a catena in noi giocatori: nel giro di un secondo ridevamo tutti.
Ed anche (chi più chi meno) abbastanza sguaiatamente, tanto lui in quelle condizioni - rantolava nonché smoccolava all’ennesima potenza - non avrebbe mai potuto identificarci in modo cristallino.
C’era però da battere questa benedetta punizione, in una posizione da destro naturale, mannaggia.
Ma nessuno si azzardava a prendersi la responsabilità, l’allenatore-giocatore, guarda caso destro naturale, pian pianino stava resuscitando dal fango e si presumeva che il designato fosse lui.
Tuttavia non era ancora pronto, così mi feci coraggio e posizionai il pallone sul luogo di battuta.
Mi illusi di applicare l’improbabile equazione {io essere mancino numero di scarpe 39½→ Maradona essere mancino numero di scarpe 39½→ io mandare pallone all’incrocio dei pali} ma l’allenatore, incazzato nero per tutta una sommatoria di fattori, mi si avvicina (claudicante) e stoppa le mie velleità sul nascere intimandomi a brutto muso: “’un penserai mica di tira' te?”
Stuzzicato dall’affronto gli sibilo un ambiguo “dé no”.
L’arbitro fischia e lui, resosi conto che potevo anche non scherzare, stavolta è categorico e lancia l’ultimatum: “levati dai coglioni, se ci provi t’ammazzo”.
Incurante di tutto io tiro in porta, calcio a giro di piatto (a foglia morta nelle intenzioni) solo che il pallone, impregnato d’acqua, pesava una sassata.
E così dal piede mi parte una palla a “cachetta” che si va ad afflosciare sulla barriera, ma ritengo che anche a visuale scoperta il tiro difficilmente avrebbe oltrepassato la linea di porta, da quanto era debole.
Alzo la testa verso Andrea Lupi e purtroppo riscontro che era intenzionato sul serio a mantenere fede alla parola data poco prima. Era rosso in volto di rabbia come un cappone e, segnale ancor più allarmante, gli si era gonfiata la vena sul collo a tal punto che pareva la radice di un tranapecoro.
Avevo i secondi contati, se stavo lì immobile ero un uomo morto e nel mentre davanti agli occhi scorreva velocemente il film della mia vita, l’istinto di sopravvivenza mi fece prendere la più saggia delle decisioni: presi il fugone, scappai. E lui mi corse dietro, come era prevedibile.
Mi diressi verso il cancello di uscita ma vidi non soltanto che era chiuso, ma pure bloccato col catenaccio! Meno male, non ho mai benedetto così tanto la mia (tuttora) buona vista.
Eh sì, perché il tempo necessario di fermarmi ad armeggiare per aprire non ce l’avevo proprio, avevo una belva assatanata attaccata al culo.
Ero chiuso in gabbia, nonostante ciò non sprecai preziose energie mentali in inutili imprecazioni agli dei, mantenni il sangue freddo e passai immediatamente al piano B.
Cambiavo ripetutamente e bruscamente direzione, in campo, con lui sempre sulla scia a ringhiare e sbavare, sembravamo la gazzella ed il leone.
Ogni suo assalto andava a vuoto, riuscivo davvero nell’intento, minchia!
Mi facevo forza pensando: sono più giovane di una decina d’anni, più allenato, lui non è mai stato un fulmine di guerra e per l’aggiunta fuma (Marlboro) come un turco.....vediamo quanto resiste, se non mi acchiappa qualcun altro….. questo qui col cazzo che mi piglia, è capace che la passo liscia.
E così fu, lui desistette dopo un po’ di zig zag e poi la seconda ipotesi - che qualcun altro mi acciuffasse offrendomi in pasto al leone feroce - andava scartata a priori in quanto nessuno (dei nostri) aveva la forza materiale di muovere un solo dito, piegati in due come erano dalle risate.
Ad onor del vero, in chiusura e non è un dettaglio da poco, il leone non è che corresse poi così piano, anzi, a detta dei testimoni (io dietro mica vedevo) aveva gli occhi spiritati che addirittura brillavano, figuratevi quanto era convinto e vicinissimo a catturare la preda. Claudicante una sega.
Sì va bene, ero sano e salvo, ma il pallone? Che fine aveva fatto? Si era infranto sulla barriera e poi? Non era né uscito, né si era smaterializzato.
Due scenari in uno, due azioni in una, due corse folli nella stessa direzione: mentre io stavo rischiando la pelle sul fallo laterale gli avversari non si impietosirono affatto dalla tragicomica scena e parallelamente si involarono verso la nostra porta palla al piede, baldi e fieri, ma sotto sotto anche un po’ merde.
Fu una cavalcata trionfale, tipo quelle del cartone animato Holly e Benji, con due piccole varianti:
1. mancava la musichina di sottofondo.
2. i giocatori preposti a difendere non lo fecero perché letteralmente paralizzati dalle risa.
E dunque gli eroi d’oltre canale, incontrastati, si presentarono in quattro contro uno, il portiere, che però, in realtà, era come se non ci fosse poiché stramazzava dalle risate anche lui.
Ma come mai Andrea Lupi arrestò di colpo l’inseguimento proprio allo scoccare del tiro avversario?
E perché subito dopo cambiò drasticamente di umore, concedendomi di fatto, in via definitiva, la grazia? Il motivo è molto semplice, l’esito di quella ghiotta occasione fu l’impagabile chiusura del cerchio, l’apoteosi.
Nessuno si scorderà mai di come il navigato bomber dalle movenze aggraziate, tal Sergione – almeno così lo chiamavano i compagni in campo, si suppone per via della sua stazza abbondantemente sopra il quintale – improvvisato Mark Lenders della situazione, riuscì nell’impossibile: si mangiò il gol!! NNOOOO!!
Il pallone, scagliato a porta sguarnita con un bolide di una potenza inaudita (alla Mark Lenders appunto) sorvolò la traversa, centrò con precisione chirurgica un piccolo squarcio nella rete di recinzione e mestamente terminò giù di sotto nei campi, parecchio ma parecchio lontano, fu giocoforza rimpiazzato con un altro.
La partita ovviamente finì 1 a 1 e la mezz’ora rimanente fu pura accademia, in un’atmosfera surreale e qui si rimanda il lettore alla considerazione iniziale.
Intanto che il pallone ruzzolava giù nei campi, l’arbitro avrebbe fatto in tempo a pronunciare più o meno questo: «verdi (loro) fatevi la doccia alla svelta, avviatevi al porto e, se ce la fate, prendete pure la nave prima; blu (noi) tornate alle vostre dimore a pranzare come si deve in un dì di festa, andate pure a divorare, semmai ce li troviate ancora, gnocchi, ravioli ed ogni quant’altra prelibatezza sacrificata poc’anzi alla causa. A nome della Federazione Italiana Gioco Calcio, in virtù del fatto di essere venuti qui a giocare questa gloriosa partita (dirigenti esclusi, gli spettatori ammontavano ad una sola unità, un noto personaggio dell’hinterland procchiese), vi ringrazio tutti» dopo di che, nel silenzio assoluto, avrebbe dovuto levare le braccia al cielo e far riecheggiare il triplice fischio finale.
Ma cosa ci vuoi fare, non si era mica al Bernabeu…… se eravamo a Literno, in terza categoria, un motivo ci sarà pur stato.
p.s. Quel pallone lì fu ritrovato per caso il mese dopo, mezzo sgonfio, in un desolato buscione. Meschino
Michelino Melis