Mi sono capitate sotto gli occhi alcune riflessioni che oltre dieci anni fa condividevo con i lettori di “Elbareport”, e che forse è utile richiamare nell’imminenza delle elezioni amministrative che riguardano tre dei nostri Comuni elbani.
Richiamo quanto scrivevo allora:
Bisogna ritrovare il significato delle parole. Dai gesti e dai suoni inarticolati l’uomo è passato a quella che noi chiamiamo civiltà proprio attraverso la parola, detta e in seguito scritta. E la ricchezza delle civiltà ha come attendibile unità di misura proprio il numero delle parole che la lingua usata possiede. Quante più sono le parole tanto più facile è la comunicazione, purché siano usate avendo riguardo al loro preciso significato, al solo significato che hanno: vengano cioè usate in modo univoco e non equivoco.
Questo è necessario sempre, ma particolarmente nel discorso politico: perché lì l’equivoco è grave, e può divenire pericoloso. Prendiamo allora la parola “politica”. Deriva da “polis”, parola che indica l’insieme dei cittadini, la “città” nel senso sociale di cittadinanza: politico è dunque ciò che riguarda l’insieme dei cittadini. Chi non si interessa di politica si interessa solo di sé e dei suoi. Vediamo subito che l’uso corretto della parola ci fornisce un criterio di giudizio assai preciso nei confronti, a esempio, di coloro ai quali affidiamo la cura e il governo delle cose che riguardano la nostra vita associata, la nostra vita civile.
“Civile”, del resto, è parola che in latino corrisponde -in certo modo- al termine greco “politico”: civile è ciò che riguarda la ‘civitas’ -parola da cui deriva il nostro termine città-, appunto l’insieme dei ‘cives’. Ma con più precisione i Romani nostri progenitori distinguevano gli interessi del civis, del cittadino privato, da quelli della civitas, indicando questi ultimi come “res publica”, appunto il nostro repubblica. Dunque la ‘res publica’ -letteralmente, cosa pubblica- è per definizione altro rispetto all’interesse privato, anche se non necessariamente in contrasto. E anche questo ci pare chiarimento di non poco conto riguardo ai comportamenti di coloro ai quali è affidata la ‘cosa pubblica’, gli ‘Amministratori’. Tanto nelle realtà più grandi (lo Stato), quanto nelle realtà locali.
Chi si candida a amministrare deve conoscere la realtà che intende “servire” (poiché “amministrare” significa appunto “servire”), e deve aver concepito un progetto che dovrà spiegare al popolo, “parteciparlo”; così come sarà suo interesse “partecipare” (comunicare) i risultati via via raggiunti, o le variazioni apportate al programma: il che significa rendere conto delle proprie azioni e riscontrarne la corrispondenza con il programma o indicare le motivazioni dell’eventuale necessità di modificarlo. La partecipazione deve essere una esigenza degli amministratori prima ancora che dei cittadini –per i quali “partem capere”, prender parte, resta comunque un dovere, oltre a fornire la possibilità di crescere nella “competenza” politica–: nasce dalla volontà di trasparenza e apertura, e si esercita sulla gestione delle risorse ‘comuni’. Già, perché ‘amministrare’ vuol dire gestire risorse (soldi, bilanci): indirizzarle, tesaurizzarle, anche ‘inventarle’, nell’interesse generale; e avendo in mente un progetto di sviluppo della società che si amministra, un progetto a lungo periodo e ad ampio orizzonte. Certamente l’“ordinaria amministrazione” è la parte più grossa della vita di un Ente, e l’intervento nell’ordinaria amministrazione non è né semplice né indolore; per questo a maggior ragione deve essere trasparente e quanto più possibile condiviso, cioè spiegato e verificato. Ma oltre, toccando i grandi temi della vita delle comunità –sanità, scuola, servizi; e poi ancora assetto del territorio tanto antropizzato quanto non antropizzato, sviluppo delle attività economiche, progetto complessivo del sistema– si esprimono le capacità più rilevanti degli amministratori: che sono quelle di vedere oltre il contingente, l’esistente, per immaginare il futuro consolidando quanto è ancora da ritenere vitale e modificando anche sostanzialmente quanto è ormai incapace di produrre sviluppo.
Ovviamente non si deve pretendere che gli eletti abbiano delle competenze specifiche, tecniche –che potranno attivare ricorrendo ai tanto denigrati consulenti, indispensabili per riuscire a operare (e che non è assolutamente necessario pagare a peso d’oro)–; la loro competenza deve essere “politica”, quella appunto espressa nella formulazione del programma. Eccoci ai bilanci, ai soldi. Tutto quanto si è visto appartenere all’attività amministrativa sta dentro lo strumento fondamentale che è il bilancio, che traduce in cifre tutte le attività di governo. Ogni amministrazione dovrebbe prima di tutto “partecipare” i bilanci, anche ‘in corso d’opera’: far sapere quantità e ragioni delle allocazioni di fondi alle diverse voci, delle variazioni, delle realizzazioni: e allora diviene chiaro che il regolamento urbanistico non è soltanto una “sistemazione” dei bisogni presenti (e mai di quelli propri o dei vicini a vario titolo), ma un investimento nella principale risorsa di ogni comunità, cioè il proprio territorio; la progettazione del territorio può anche essere fuori della competenza tecnica degli amministratori: ma decidere se lo sviluppo di un territorio come il nostro debba realizzarsi attraverso la rendita edilizia (affitti estivi ai turisti) o attraverso lo sviluppo dei servizi ai turisti (con disponibilità di affitti tutto l’anno per i nostri concittadini operatori nei servizi) è una scelta politica che rientra appieno nelle politiche degli amministratori, e che è loro interesse “partecipare”.
Oltre a tenere sempre informati i cittadini (nelle molteplici forme che i mezzi di comunicazione oggi offrono) gli Amministratori hanno un altro dovere specifico: essere testimoni –direi quasi “testimonial”- della “legalità”, per accompagnare la società al superamento dal moralismo in politica.
La questione della legalità non passa alta sopra la nostra testa, non è cosa lontana e arcana, non appartiene ai nobili principi del “sarebbe bello”. E soprattutto non riguarda “gli altri”. Ogni giorno a noi tutti capita di attraversarla, e spesso di scansarla o far finta di non vederla. Certo l’efferatezza della mafie potenti della Sicilia, della Calabria, della Puglia, della Campania ci è nota e ci ripugna. Ma le mafie non sono solo quelle organizzate, grandi e potenti; anzi esse sono solo l’espressione trucemente attiva di un atteggiamento culturale che le unifica tutte, e che ne costituisce la radice. E tale atteggiamento culturale non è prerogativa delle infelici popolazioni del Meridione: è presente anche qui da noi, e in fondo ognuno di noi un po’ se lo porta dentro, grandi e piccini.
Perché Mafia è farsi da sé la propria legge: decidere da sé quando le tasse sono troppe, quando si devono pagare i contributi ai dipendenti o meno, magari con aggiunte in nero alla busta paga; decidere quando e come assumere un collaboratore in modo difforme da quanto previsto per le prestazioni reali richieste; chiedere di poter lavorare ‘al nero’ d’inverno, per non perdere l’indennità di disoccupazione, o andare a lavorare anche quando si avrebbe diritto a stare a casa, per non subire rappresaglie, ecc. Mafia è anche la menzogna o la complicità nelle mille occasioni quotidiane; è il lasciar fare quando si subisce una violenza grande o piccola, quando la si vede consumare senza dir niente, quando la si consuma; è approfittare del proprio vantaggio su chi è in svantaggio; è ricattare chi ci ama o terrorizzare chi non può amarci. Mafia è il casco non abbottonato, le cinture non allacciate, la scuola saltata; è usare il proprio potere, piccolo o grande che sia, per coprire la propria pigrizia o la propria malizia; è capovolgere il rapporto fra chi deve dare e chi deve ricevere un servizio, sia esso la scuola, la salute, la casa, la sicurezza, una pratica amministrativa. Mafia è la prevaricazione dei genitori sui figli, immaginati e desiderati come strumenti della propria gratificazione o parafulmine delle proprie frustrazioni. Mafia è togliere la libertà di decidere della propria vita o di correggerla rompendo la routine o di reindirizzarla sulla strada di speranze nuove; è togliere la libertà di donare e di donarsi, prendendo prima e per forza ciò che si desidera senza rispetto dell’altro. Mafia è rinunciare a vivere pur d’avere denaro, è vendere morte per denaro. E ancora, ancora, ancora, con responsabilità e pericolosità diverse, ma con la stessa logica.
A questa cultura tristemente diffusa non si può opporre che l’affermazione solenne e pratica della legalità: che vuol dire ricollocare ogni valore al suo luogo, ogni comportamento alla sua norma –cioè verificando che ogni nostra azione possa essere assunta come norma per tutti–, ogni persona alla sua dignità –cioè considerando ciascun altro essere umano come fine e mai come mezzo–, secondo l’insegnamento di uno dei padri del pensiero moderno, ma anche secondo la più antica tradizione cristiana.
Credo che questa sia l’unica strada percorribile, e che vada percorsa ogni giorno con un processo di puntuale attenzione a ogni manifestazione del nostro agire, a cominciare da casa nostra. Alla scuola, poi, il compito di fornire gli strumenti e le abilità per compiere questo percorso esistenziale (il resto è ampiamente secondario); alla comunità adulta il dovere della testimonianza diretta. A tutti l’incombenza ineludibile della sorveglianza e del controllo. Alle Amministrazioni l’incarico di tradurre l’imperativo civile individuale in comportamenti pubblico sistematico, di tutti e per tutti. A ogni Istituzione l’onere di garantire il rispetto delle leggi, che della legalità sono l’espressione sintetica, come la violenza lo è della Mafia.
Luigi Totaro