Nato a Poggio, un borgo montano di origine almeno etrusca sul versante settentrionale del Monte Capanne all'Isola d'Elba il 18/09/1933, e qui, il 22/10/2017, assunto ai cieli, Mario Lunisio Mazzei è stato un uomo socievole e ascetico, dotato di un'aura maestrale e un'ironia toscana che lo hanno reso un “mito” vivente dell'epica popolare delle sue parti.
Mente geometrica e mano tecnica ne hanno fatto un professionista esemplare nell'arte edile e in quella gastronomica. Negli ultimi anni della sua vita, non riuscendo mai a starsene con le mani in mano e il cervello in poltrona, si dedicò all'arte pura.
Ha scritto racconti, poesie, canzoni, dipinto molti quadri che ritraevano il suo amatissimo Poggio etrusco e sculture di figure e simboli della storia, tra i quali “Napoleone”, “Pietro Gori Cavaliere Errante dell'Anarchia”, “la Madonna Maria" (della quale portava il nome, seguito da quello di Lunisio, italianizzazione di Losna, divinità protoetrusca della Luna), “il Duce”, “il Cristo Nero”, “Pinocchio” e “il Fascio Etrusco”.
Completamente autodidatta, la sua filosofia si dispensava attraverso le perle di saggezza che con linguaggio semplice e diretto sapeva dispensare facendo largo uso di aneddoti della più antica tradizione orale locale.
Mariuccio era fiero delle sue doppie origini etrusche. Figlio dell'elbanissimo Nello, impresario edile che costruiva carceri e scuole per il Regno, e di Annunziata Tonelli di Montecatini in Val di Cecina. Per metà pucinco, come si chiamano gli abitanti del borgo di Poggio e per metà del Volterrano si considerava assolutamente Etrusco. Anzi, Doppio Etrusco, dei monti di Volterra e della “sua” isola del ferro.
Il cranio grande ed elegante, tipico delle popolazioni storiche della Toscana, e dell'Elba, l'isola che ha sempre amato sopra ogni altra cosa. Affacciato al terrazzo nella sua casa di Poggio, ha sempre però osservato con amorevole curiosità la costa al di là del mare, esploratore dello Spazio in attesa di compiere un altro viaggio verso l'ignoto.
L'estate, dopo cena, si andava fuori sul terrazzo a guardare la costa dall'altra parte del mare. Una lunga distesa di nero interrotta qua e là dalle luci delle città che allora sembravano così vicine eppure così lontane e irraggiungibili. Da Piombino, con le sue lucette rosse in cima alle ciminiere, fino al faro di Livorno. Lo riconosci subito, perché fa una luce bianca intermittente. Mariuccio diceva sempre che a volte si riesce a vedere fino a Genova, quando è bel tempo. Io, in tutti quegli anni, Genova non l'ho mai vista e non capivo. Oggi, forse, anche se ancora non riesco a vedere Genova, posso per lo meno immaginare che Genova ci sia. È solo un po' più in là rispetto alla luce del faro di Livorno. Basta sapere dove guardare.
Lui lo sapeva, e fissava il mare e la terra e il fianco della sua isola, giorno dopo giorno. Diceva anche che in alcune giornate particolarmente limpide, da Pomonte si riescono a vedere le capre in Corsica.
Le mani forti e dure, con le quali modellava la materia intorno a sé, prima con il suo doppio lavoro di costruttore e pizzaiolo, poi con le stimmate dello scultore etrusco costretto dal suo ruolo a trasmettere e tramandare la voce dei suoi antenati.
Più della sua isola, ha amato solo sua moglie Pina, con la quale ha condiviso per più di mezzo secolo la sofferenza del lavoro, i dolori della vita, l'amore dei figli e dei nipoti.
Se ne è andato la notte fra sabato e domenica, all'età di 84 anni, silenzioso e senza soffrire, come aveva sempre vissuto in osservanza di tutto ciò in cui credeva, che la morte non sia sofferenza ma l'inizio di un nuovo viaggio.
Umberto P. Martinez