Ormai da qualche anno è difficile parlare ‘normalmente’, voglio dire come s’usava quando ancora tra parola e parola, tra frase e frase, tra pensiero e pensiero intercorreva un tempo sufficiente per ascoltare. Ora si parla ma non si ascolta più: e gli stessi mezzi di comunicazione adoperati -non più il telefono, che almeno prevedeva un dialogo; ma post, tweet, selfie, immagini, “storie” fotografiche e filmate- non producono scambi ma procedono solo in un senso, dalla fonte alla destinazione, sempre più collettiva e sempre meno individualizzata.
Persino il dibattito politico utilizza questo nuovo modo di comunicare; e così, eliminato il contraddittorio ‘in presenza’, vince chi ‘comunica’ per primo, all’alba o durante l’incontro riservato o la seduta del Parlamento o del Governo. La comunicazione, poi, è rivolta essenzialmente a chi condivide già il pensiero (follower), e serve solo a dar forza al comune sentire: non si discute più, si ‘predica’ al proprio popolo; tanto poi ci pensano gli “altri”, naturalmente “avversari” (non followers), a dare la notizia all’“esterno”, a renderla pubblica, anche suscitando reazioni critiche, ma tutte a loro volta indirizzate ai propri followers, senza mai confronto dialettico, tutt’al più in uno scontro sulle barricate.
In questo modo ognuno può dire quello che vuole, tanto chi legge è già d’accordo, ha aderito da prima, “condivide” già; e perciò si rafforza nella propria convinzione, senza mai confrontarsi, senza mai mettere in discussione la propria “fede”incrollabile: “non mi interessa sapere se una cosa è vera; mi basta che coincida con quel che penso io”, ho sentito dire in un bar... Il contenuto della comunicazione così diventa accessorio. Un po’ come quelle specie di balletti che fanno i ragazzi quando si incontrano e “si danno il cinque”, poi il pugno, poi il gomito, ecc.: il significato dei gesti sta nella condivisione del rituale, senza bisogno di parlare.
La comunicazione è ridotta a rituale; ciò che conta è quel che precede e quel che segue l’“informazione”, appunto la “condivisione”: chi ha più “mi piace” è più ascoltato, e i nuovi “like” che riceve lo rendono più influente (“influencer”). La competizione si sposta all’avere più “mi piace”, e per vincere tutti i modi sono buoni: tanto il contenuto evapora rapidamente, mentre i “like” restano (i genitori si preoccupano, giustamente, di cosa i figli possono inventare per accumulare “like”: la esperienza a suo tempo vissuta e la modesta conoscenza dell’attuale universo mentale dei figli sono sufficienti a scatenare l’ansia; non si preoccupano invece di sapere cosa si “inventano” i comunicatori adulti per avere più condivisioni). Di qui la corsa a creare “eventi” capaci di sollecitare condivisioni quanto più rapide e irriflesse, per ottenere quanto prima un numero importante di “like” (e confermarsi come “influencer”).
La serie di tali “eventi” -o degli annunci che li danno per avvenuti- è ormai infinita: riduzioni di disoccupazione, di prelievi fiscali, di povertà (ma chi ricorda più l’annuncio dal balcone di Palazzo Chigi della “sconfitta della povertà” da parte dei 5Stelle festanti?), di delinquenza, di immigrazione (spesso accostate), di riduzione della soglia per età pensionabile ecc.; il tutto corroborato da costosissimi “cotillon” (indifferentemente da 80€ o da 500€), o carte di credito per “redditi” di cittadinanza, o diminuzioni di contribuzioni ai migranti, o ruspe minacciose, o sfide roboanti alle Istituzioni delle quali si fa pur parte, e via di seguito. Non importa se quanto annunciato abbia senso, se si voglia o possa realizzarlo davvero. Quel che produce consenso, di “like” e di voti, è l’annuncio; anzi, gli annunci, da far seguire continuativamente, in un’escalation esaltante che distragga dall’assenza di realizzazioni effettive.
Non rimpiango il realismo tragico di Mario Monti o il “migliorismo” sconfitto di Giorgio Napolitano. Ma, nelle condizioni attuali, inserirsi nel “discorso” politico con le ragioni del confronto e della critica è operazione quasi disperata. L’altra mattina il Ministro dell’Interno ha comunicato via-twitter l’arresto di alcuni membri della mafia nigeriana a Torino, quando l’operazione era ancora in corso o si era da poco conclusa, con conseguente immediata reprimenda della Procura della Repubblica del capoluogo piemontese; il motivo addotto dal Ministro era la volontà di congratularsi con le forze di polizia (che dipendono dal suo Ministero) per la brillante operazione. Al di là della opportunità o meno della tempistica, la comunicazione implicitamente ascriveva il risultato ottenuto a merito dell’azione di contrasto alla malavita di immigrazione messa in atto dal Ministro. Tutti i giornali hanno parlato della nuova polemica con la Procura, fornendo alla vicenda una risonanza enorme, come sommamente desiderato dal il Ministro con il suo tweet. Solo a sera Marco Travaglio, quando ormai il contenuto della notizia era svanito e restava solo l’eco della polemica seguita, ha fatto notare (da Floris) che l’arresto era stato disposto appunto dalla Procura, che aveva ordinato e coordinato le indagini, peraltro verosimilmente iniziate ben prima dell’avvento dell’attuale Governo; e dunque –senza nulla togliere ai meriti delle forze dell’ordine- con la Procura avrebbe dovuto felicitarsi il Ministro. Ma questa informazione sostanziale era tardiva, mentre il messaggio del tweet mattutino era arrivato subito a destinazione. Lo stesso vale per tutte le cosiddette ‘gaffe’ dei comunicatori: ormai questo è il modello accettato della nuova informazione.
In tempi che appaiono remoti i galantuomini si sarebbero fatti affettare pur di non mancare alla ‘parola’. Oggi il termine “galantuomo” è obsoleto e suona buffo, e la ‘parola’ è spesso sostituita da un “emoticon”. Va bene tutto. Basterebbe non farsi fregare.
Luigi Totaro