Anche se non ve lo confesserà mai, un mancino su un campo di calcio ha il terrore di una cosa: calciare al volo di destro.
Non si può descrivere, è così e basta.
Quando un mancino si rende conto che il pallone, rotolando o rimbalzando, gli cascherà sul destro e dovrà necessariamente andare di prima, bada al sodo, concentrandosi altresì alla morte.
Perché l’istinto di sopravvivenza prevale su tutto e la cosa che veramente gli interessa è una sola: evitare il liscio plateale, la figuretta.
E pazienza se prezzo da pagare, a volte, è una rapidità d’esecuzione non proprio fulminea, che spesso combacia con una fluidità di movimento quasi goffa.
Sì, può accadere tutto questo, a meno che….
A meno che non usi il sinistro al posto del destro.
Mi spiego meglio, entro nello specifico.
Quando si calcia di piatto si cerca la precisione, di collo la potenza, di punta la sorpresa, di tacco la finezza, ma d’esterno?
L’esterno lo si usa - se si è capaci - quando si dovrebbe usare l’altro piede, poiché il pallone, in funzione della postura del corpo assunta in quel preciso momento, casca proprio lì.
Però è dura da insegnare, è un gesto tecnico innato ed inoltre, per le gittate più lunghe, ci vuole anche forza nelle gambe, e tanta.
Il più famoso, oggi, mi sa che è Quaresma: quando esegue la “trivela” (terminologia moderna) è quasi idolatrato dal telecronista di turno, ma a me scappa da ridere ogni volta ed il perché è presto spiegato.
Quaresma, o chi per lui, a Donatello Martorella gli avrebbe (mi si passi il termine) fatto una sega.
In questo senso, nel calciare d’esterno cioè, Donatello non aveva, e non ha tutt’ora, eguali.
Ha affinato questa tecnica da autodidatta, su campi e con palloni che vabbè, lasciamo stare.
Ci faceva tutto: passaggi, cross e ci tirava in porta, eccome se ci tirava. In azione, su rigore, su punizione, da ogni distanza e posizione laterale, perfino da calcio d’angolo.
Era un po’ il suo marchio di fabbrica ed ebbene sì, il segno l’ha lasciato.
Perché ancora oggi, quando un giovane calciatore si avventura d’esterno, indipendentemente dall’esito ci sta che venga poi apostrofato affettuosamente così, dall’allenatore o da qualche dirigente: “Dé, alla grazia di Donatello!”
Ma riavvolgiamo il nastro dall’inizio, che il succo è proprio lì.
Donatello aveva sedici anni, militava negli allievi dell’Audace, al principio degli anni ’70, e grazie a conoscenze con il massaggiatore del Bologna fu segnalato ed andò in prova lassù, aggregato diciamo alla primavera.
Nel capoluogo emiliano andò più o meno così: dopo aver svolto le settimane estive di meticolosa preparazione tecnico/atletica ci fu una partita, primavera contro prima squadra.
Premessa: la prima squadra del Bologna di allora (Bulgarelli, Salvoldi e compagnia bella) non era esattamente una squadretta, l’anno prima in serie A arrivò quinta ed in casa perse solo una volta, incassando la miseria di nove gol.
E poi, solitamente, e chi ha giocato a pallone lo sa bene, c’è una disparità di forze enorme quando una prima squadra affronta una giovanile e di solito quest’ultima non si rende quasi mai pericolosa.
Ci fu questa partita dunque: pronti, via, Donatello gli schioccò tre gol.
Sissignori, una tripletta alla prima squadra del Bologna.
Le marcature erano rigorosamente ad uomo ed il difensore avversario che lo aveva in cura, Tazio Roversi - giocatore di tutto rispetto: secondo all time, dietro soltanto a Bulgarelli, per quanto riguarda i gettoni di presenza con la maglia rossoblu - fu quasi ridicolizzato.
Non male come buongiorno, eh?
Probabilmente i dirigenti felsinei si stropicciarono gli occhi e si fregarono le mani perché, proprio tra le mani, si ritrovavano un tesoro.
Ma era disciplinato Donatello per stare a quei livelli? Sì, certo, come no.
Dopo poco tempo che era lì, con altri compagni evidentemente “matti” come lui, una volta di buon’ora scappò dal ritiro ed insieme, in cinque, a bordo di una scassatissima utilitaria (che per clemenza non li lasciò a piedi), andarono a Monza a vedere le prove di qualifica del Gran Premio, marinando l’allenamento.
Non male come buongiorno anche questo, eh?
Logicamente i dirigenti chiusero un occhio, un tesoro è un tesoro, e non era il caso di rischiare di perderlo.
Quel tesoro però a Bologna lo persero lo stesso, dopo qualche mese, per un altro motivo.
Sindrome di scoglio: ahi, mannaggia, anche lui.
Eh già, ma vallo a spiegare, a chi di scoglio non è.
Giocarono un’ultima carta i dirigenti del Bologna, andarono a casa sua e stettero attaccati al citofono per una settimana, ma non ci fu verso di fargli cambiare idea.
In quel periodo Donatello legò, e parecchio, con un coetaneo che fece un altro tipo di carriera, Eraldo Pecci.
Lo stesso Pecci, quando poi anni dopo ha messo piede all’Elba per venire in vacanza, non ha mancato di andare a salutarlo.
Tornò all’Audace. Under 18? No. Prima squadra, diamine!
L’ho chiesto al mio babbo, che a quel tempo giocava in prima squadra nell’Audace, cos’era Donatello quando rientrò da Bologna. La sua risposta: “una forza della natura”.
Era esploso.
Scaltro, veloce, potente, devastante, quando in giornata immarcabile - per chiunque: vedi sopra - e poi estro, fantasia, sfrontato al punto giusto, non allineato e non allineabile agli schemi.
Dopo otto anni in cui ha dato il suo (grosso) contributo a scrivere pagine significative della storia biancorossa, cambiò aria, lasciò l’Audace.
Sindrome di scoglio anche stavolta, ma un po’ più nel dettaglio: si torna a casa in tutti i sensi, si va a Capoliveri.
Questa foto (tratta dal libro dell’Audace pubblicato in rete su Mucchio Selvaggio) è stata scelta non a caso, è un derby Audace-Capoliveri, al Carburo.
In questa foto (lui è il 9 del Capoliveri, mezzo di profilo) c’è tutto: le maglie della sua carriera, la sua chioma riccioluta, le sue gambe possenti e poi, soprattutto, si percepisce quel fare scanzonato con cui si raffronta al clima di bolgia, palese, che all’epoca si respirava ovunque, una domenica sì e l’altra pure.
Si potrebbe stare qui a raccontare ore ed ore, aneddoti ed episodi si sprecherebbero, ma una domanda sorge spontanea: vale la pena ripercorrere le sue prodezze, nell’Audace, nel Capoliveri, nei tornei (allora seguitissimi) dei bar, ecc…?
Forse no, perché alla resa dei conti sarebbe fin troppo scontato.
Era un giocatore di categoria superiore, nettamente superiore, lo sapevano tutti, e in cuor suo lo sapeva anche lui.
C’è chi dice che fosse discontinuo.
Grazie al cazzo. Ma perché, uno che scappa dal ritiro del Bologna lo vorresti anche continuo?
E poi avresti levato la poesia alle sue giocate.
Come tutti i mancini era difficile venirne a capo, ma per Donatello c’è una frase che mi sa racchiude tutto.
Solo una squadra di undici mancini come lui, della sua stessa razza, sarebbe in grado di vincere tutte le partite. Ma anche di perderle.
Donatello era talento, grezzo e raffinato allo stesso tempo, imprevedibile a prescindere, croce e delizia.
Se era croce allora, l’uso dell’esterno del piede ostentava, diventava abuso, l’oliato meccanismo faceva cilecca ed in giornata no, sotto porta, si mangiava quello che si mangiava.
Ma se lo poteva permettere, gli era concesso.
Perché quando poi era delizia sfrecciava in contropiedi a cento all’ora e vergava staffilate di collo/esterno sotto l’incrocio, da posizioni impossibili, da lontano eh, che da vicino son buoni tutti.
Attraverso un mix perfetto di immaginazione, coordinazione, potenza e precisione, eseguiva questi capolavori di balistica così, con naturalezza, come se nulla fosse.
Un gol dei suoi ne valeva dieci di quelli normali, e ho detto tutto. Un gol dei suoi era un’opera d’arte.
E chi se ne frega se talvolta al termine del campionato non andava in doppia cifra. Era, appunto, un artista.
Del resto il nome, di per sé, era già garanzia: uno dei padri del Rinascimento si chiama proprio come lui.
Non è mai diventato un allenatore, dopo un anno a Rio Marina passò subito la mano.
Dando prova di grande intelligenza, perché percepì una cosa al volo: la sua prerogativa, che sul campo era una virtù, in panchina sarebbe stato un limite.
In panchina, durante la settimana (più che alla domenica) c’è da programmare, organizzare, gestire, aggiustare, trovare un compromesso.
Lui? Non allineato e non allineabile, istintivo ed improvvisatore com’era?
No, grazie.
Peccato, perché Donatello capiva veramente di calcio, un suo giudizio era una sentenza.
Dal momento che Donatello era estro e fantasia allo stato puro, forse è giusto chiudere queste righe altrettanto.
Che poi, quando si tratta di pallone, volare con la fantasia non guasta mai.
Uno sliding doors in chiave attuale, come sarebbe andata a finire se…..
E allora quel mancino capoliverese me lo immagino così, riccioluto a sedici anni ma oggi, con i campi, le scarpette e soprattutto i palloni che ci sono ora.
Me lo immagino nella primavera del Bologna e senza la sindrome di scoglio, ovviamente.
Sai che caterve di gol a modo suo? E le big lo pagherebbero a peso d’oro?
Non lo sapremo mai.
Su una cosa però si può tranquillamente mettere la mano sul fuoco: a questi telecronisti di nuova generazione li farebbe sbavare, sgolare, impazzire, andare fuori di testa.
Perché sì dai, pensateci bene.
Uno così, che si presenta sul calcio d’angolo e (invece di crossare) tira in porta, d’esterno, quando l’hanno visto mai?
Michele Melis