Nel 1902 giunse all'Elba una “gita” di studenti di medicina legale dell'università di Siena, diretti dal loro professore Agostino Ottolenghi, oggi considerato uno dei padri della criminologia. Erano due le destinazioni: le carceri di Portolongone e Portoferraio. Lo scopo didattico era quello di intervistare i detenuti.
Nei due bagni penali stavano passando in quegli anni alcuni dei protagonisti della storia d'Italia, non solo criminale. Alla Linguella, fino al 1889, era recluso Giovanni Passannante, il mancato regicida di Umberto I; e Gaetano Bresci, che invece non fallì l'attentato, era passato pochi mesi prima dal forte di Longone. Non solo anarchici videro le sbarre dell'Elba, ma anche delinquenti comuni e soprattutto protagonisti di quello che è noto come brigantaggio post-unitario: “una guerra feroce”, scriveva Aldo de Jaco, “senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia”.
Una pagina drammatica della storia italiana, che ancora oggi divide la storiografia. Inizialmente fu rivalutata da una parte degli storici di sinistra, che la vedevano (non del tutto a torto, pur nella sua complessità) come lotta di classe dei contadini contro i latifondisti. Oggi è materia di un revisionismo che include di tutto, perfino i nostalgici neoborbonici.
Anche le figure dei briganti sono oggi personaggi da epopea. Così come le brigantesse. Perché la partecipazione di alcune donne in questo fenomeno così drammatico è importante: nella storia d'Italia, dal 1860 a oggi, solo durante la Resistenza le donne hanno avuto un ruolo così attivo nelle operazioni militari. Le foto dell'epoca le mostrano armate, tutte con espressione dura e decisa. Donne e uomini dalla vita avventurosa. E anche criminale, certo. Ma come davano la morte, sapevano benissimo che di momento in momento poteva toccare anche a loro, e in maniera molto brutale. Erano fuorilegge sì, ma perché percepivano la giustizia solo come abuso di potere dei padroni. Nel loro caso, come scriveva Dostoevskij, viene da “considerare il delitto quasi come un dovere, come una nobile protesta contro l'ambiente”.
Quando la “gita” arriva alla Linguella trova il più famoso generale degli insorti, quello che lo stesso Ottolenghi definì il Napoleone dei briganti: Carmine Crocco. Nato a Rionero in Vulture, già da bambino fu avviato al mestiere di pastore. Dimostrò fin da subito un'intelligenza non comune. Ma anche un'insofferenza per le autorità, che lo spinse verso una vita banditesca. Nel 1860 si avvicinò agli ideali unitari e garibaldini, ma per interesse: sperava che il nuovo ordine rappresentasse un colpo di spugna per i suoi passati crimini. Resosi conto che il nuovo governo era implacabile come il precedente, passò nelle file dei legittimisti borbonici, per partecipare all'insurrezione contro gli “invasori piemontesi”. Si mise al comando di una banda, formata perlopiù da ex militari del regno delle Due Sicilie, che raggiungerà le 2700 unità e infliggerà duri colpi all'esercito. Inizia la sua leggenda: sarà considerato il generalissimo dei briganti e addirittura alcuni paesi lo accoglieranno come liberatore. Condusse una guerriglia così efficace da essere elogiata anche dagli ufficiali di carriera.
Nel 1863 il brigantaggio iniziò il suo declino per la proclamazione della legge Pica, una normativa estremamente repressiva, e l'impiego sempre più massiccio dell'esercito (addirittura furono mobilitati i due quinti dell'intero organico). Anche la banda di Crocco andò a scemare, i rovesci si susseguirono, vi fu il tradimento di uno dei suoi luogotenenti, Giuseppe Caruso. Carmine fuggì nello stato pontificio, e dopo anni di traversie, fu consegnato allo stato italiano. Nel 1872 il tribunale di Potenza lo condannò a morte, pena commutata ai lavori forzati, due anni dopo. Inizialmente scontò la pena all'isola di Santo Stefano, per poi passare definitivamente al bagno penale della Linguella.
Secondo alcuni (Ilaria Ciseri, “I macchioli”, Novara 1997-98; Valentino Romano, in “Memorie” di Carmine Crocco, Bari 1998) Crocco sarebbe anche stato ritratto da Telemaco Signorini nel dipinto “Nel bagno penale di Portoferraio”, attestato ai primi anni '90, tra i detenuti schierati in fila per un'ispezione delle autorità governative: sarebbe il primo a destra.
Gli studenti trovano un uomo ormai anziano, di 72 anni, di cui 38 trascorsi in reclusione: “Due guardie conducono nel cortile innanzi a noi un uomo vecchio, che mal si regge in piedi ma che tuttavia cerca di avanzarsi con una certa energia”. Durante l'intervista a volte Carmine si abbandona al pianto. Nelle risposte elogia Garibaldi e Vittorio Emanuele II, forse perché spera che i Savoia gli concedano la clemenza di tornare a morire al suo paese, desiderio che esprime nella stessa intervista. Speranza vana: dalla Linguella non uscirà mai. Spesso le risposte mostrano un uomo pentito del suo passato, ma costretto dalle circostanze. Per esempio quando alla domanda sugli omicidi commessi, sentenzia: “Il brigante è come la serpe, se non la stuzzichi non ti morde”.
Alla Linguella c'era ancora l'eco della recente detenzione di Passannante, e in più adesso pesava l'emozione suscitata dall'omicidio di Umberto I, due anni prima. Crocco, ben cogliendo entrambe le cose da un osservatorio come quello carcerario, definisce i regicidi “gente da poco”.
Alla domanda “Sentiste mai parlare di socialismo, di anarchia?”, Carmine risponde: “Sì, da qualche condannato stupido che professa queste idee, ed io mi ci sono appiccicato”. Tuttavia dovettero essere scontri verbali da poco, poiché la sua appare una detenzione tranquilla, da carcerato modello.
Uno degli intervistatori, insieme a Ottolenghi, è Romolo Ribolla. Questi renderà pubblica la conversazione l'anno dopo, in un volume dal titolo “Voci dall'ergastolo”. Sempre nel 1903 viene data alle stampe anche l'autobiografia di Crocco. È il capitano Eugenio Massa che si occupa di raccogliere le memorie del detenuto e curarne la pubblicazione, col titolo “Gli ultimi briganti della Basilicata: Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso”. L'opera ebbe giudizi perlopiù negativi. Il critico più severo fu Benedetto Croce, che la stroncò totalmente, definendola una raccolta di “bugiarde memorie dettate in carcere”. Ma anche altri ritengono molti episodi poco veritieri o alterati per mascherarne la reale portata criminale, e alcuni fondamentali invece del tutto taciuti. Tuttavia appare un interessante spaccato della vita brigantesca e una via per interpretare il modo con cui Crocco intendeva la sua guerra.
Durante la detenzione Carmine scriverà di suo pugno un'altra autobiografia. Iniziata a Santo Stefano, la porterà a termine a Portoferraio. Questa verrà pubblicata nel 1907, mantenendo la purezza dell'italiano zoppicante e dialettale di Carmine, a cura dell'antropologo Francesco Cascella, col titolo “Il brigantaggio: ricerche sociologiche e antropologiche”, con la prefazione di Cesare Lombroso. Lo stesso Cascella allegherà una descrizione psico-fisica di Carmine, secondo i dettami lombrosiani in auge all'epoca.
Dopo l'intervista Carmine si arrenderà inesorabilmente ai suoi ultimi mesi. Lo sentiva già in quel 1902. “Congedato da noi, egli di nuovo colle lacrime agli occhi ci ringrazia della visita, dicendo: 'Io sono vecchio, a momenti morirò; vale più questo onore che mi avete fatto che tutti gli onori del mondo!”
Infatti il 18 giugno 1905, alle 8,20, Crocco muore nel bagno penale, per “atonia senile”, come riportato nel certificato stilato dal direttore. Questi allega il documento a una lettera al sindaco di Rionero: “Portoferraio, addì 19 giugno 1905. Per conveniente notizia, debbo partecipare alla S. V. ill.ma la morte del condannato al margine citato, con preghiera di rendere informati i congiunti, comunicando agli eredi, che il Crocco non ha lasciato peculio, ma i seguenti oggetti laceri: Calze di cotone paia 6, Maglie di Cotone 1, Maglie di lana 1, Berretto da notte 2, per avere i quali devono inviare 60 centesimi pel pacco postale”.
Il 24 giugno il sindaco di Rionero Eugenio Brienza risponde: “È stata una vera sorpresa per i parenti del deceduto Carmine Donatello Crocco, cui venne comunicata la controindicata Nota, che costui dopo circa 45 anni di prigionia e di lavoro, non si abbia raggranellata una somma, giacché la S. V. mi riferisce che nessun peculio abbia lasciato. La prego quindi volermene dare spiegazione a riguardo per dare maggiore soddisfazione ai suddetti parenti. In ogni modo, accludo, a richiesta degli stessi, l'unita cartolina vaglia di £ 0,60 con preghiera di spedirmi gli oggetti sebbene laceri lasciati dal Crocco”. Non risulta però una risposta del direttore, segno che la faccenda si chiuse lì.
Tuttavia a molti rimase il sospetto di un presunto tesoro sparito. Nella sua autobiografia Crocco afferma di essere stato in possesso di una notevole somma di denaro (sembra circa 20mila lire), nel momento della sua fuga nello stato pontificio. Ma che gli fu però sequestrata dopo l'arresto da parte della polizia papale.
Non c'è quindi niente di misterioso in un uomo che nacque povero e morì povero. Ma che dei poveri riuscì a farsi generale.
Andrea Galassi
Per saperne di più. Un ritratto sommario di Carmine Crocco si può avere da un bel documentario, che potete vedere qui. Un ottimo quadro storico sulla guerra del Mezzogiorno post-unitario è “Il brigantaggio meridionale”, di Aldo de Jaco: una raccolta di documenti dell'epoca, stampata per la prima volta nel 1969 e ristampata di recente da Editori riuniti. Nel libro si trova l'intervista citata, diversi brani delle due citate autobiografie di Crocco, diversi episodi riguardanti la sua vicenda. L'intervista si può leggere per intero anche qui. Una copia del certificato di morte di Crocco è visibile qui.