Ma quanti e quali saranno i pensieri che affollano la nostra mente in questi giorni strani, mai vissuti? Mi viene in mente il paragone che usa Manzoni nei Promessi Sposi a proposito della confusione di Gertrude, adolescente, incamminata verso la monacazione forzata dalla gelida perfidia della sua famiglia e dalla sua debole volontà:
Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichio che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. (Cap.IX)
Ecco, il dramma che sta provocando l’espandersi dell’epidemia nel nostro Belpaese produce un affastellarsi di pensieri, stati d’animo, comportamenti individuali e collettivi assolutamente inediti, costringendoci alla riflessione. Da un secolo, dai tempi della spagnola, l’Italia non viveva una simile emergenza sanitaria, dunque, anche i meno giovani non ne hanno memoria. Nel giro di alcune settimane, la situazione è precipitata per numero di contagiati, malati in terapia intensiva, decessi. Il nostro pur eccellente sistema sanitario nazionale è stato sottoposto, specie in Lombardia, ad un tour de force ai limiti della sopportabilità e tutto il personale medico e infermieristico ha dato prove di eccezionale abnegazione, professionalità e a volte autentico eroismo. Le misure draconiane adottate tra gennaio e febbraio dalla Cina e a cui guardavamo con un misto di angoscia e d’ammirazione sono state prese anche dal nostro Governo e la regola, adesso, è non uscire di casa se non per motivi seri e documentati. Niente visite a figli e nipoti, niente incontri con amiche e amici, niente strette di mano, abbracci, vita sociale: la fisicità nostra e altrui diventa potenziale rischio di contagio e va abolita. Conseguenza: scuole chiuse, strade e piazze di città, cittadine e paesi deserte, molti negozi chiusi, traffico quasi azzerato e silenzio irreale ad aleggiare su tutto. Le chiese restano aperte ma senza funzioni religiose, le campane suonano, per invito alla preghiera personale e, forse, incoraggiamento. Per i genitori con i bambini a casa e spesso senza l’aiuto dei nonni, che vengono tenuti lontani a protezione di se stessi e delle loro fragilità, il tempo si dilata: occorre seguire i figli nei compiti e riempire col gioco, con la fantasia, con la capacità inventiva giorni lunghi, in cui non si possono organizzare feste di compleanno, incontri con gli altri piccoli a domicilio o nei parchi gioco.
Insomma, una situazione impegnativa ma necessaria, perché il nemico invisibile è in agguato e le possibili complicazioni che regala sono devastanti: polmoniti fulminanti per superare le quali occorre un “fisico bestiale”, come cantava molti anni fa Luca Carboni.
Una situazione che ci costringe a riflettere sul prima e sul dopo, come se l’epidemia di coronavirus fosse uno spartiacque, l’anno zero da cui ripartire, dopo la bufera. Che segni ci lascerà addosso quest’esperienza, che sarà ancora lunga e dolorosa? Forse, chissà, ci aiuterà ad essere migliori di come eravamo, dato che ci costringe oggi a riconoscere ciò che vale davvero: affetti, salute, rapporti autentici. Ora che siamo dominati da una paura concreta e giustificata forse sapremo scansare in futuro le paure fittizie, agitate ad arte per plagiare il nostro pensiero e le nostre scelte e impegnarci maggiormente per una globalizzazione più equa, una difesa più decisa dell’ecosistema, una riscoperta del senso civico e della solidarietà. Perché, di fronte a minacce di questa portata non esistono barriere nazionali né di classe né d’età: il virus se ne fa beffe, si spande dall’Estremo Oriente all’Europa, dall’America all’Africa; infetta gente umile e importante, vecchi e giovani. E che il Cielo preservi sempre i bambini!
Dunque, dobbiamo rivedere molte delle nostre certezze di ieri, quando pensavamo che, in fondo, erano poche e conosciute le malattie da debellare; che potevamo improvvisarci medici e scienziati, condannare i vaccini – mentre ora chissà cosa daremmo che ce ne fosse uno contro il coronavirus –, fare a meno delle competenze, della scienza e consentire che fosse umiliato un sistema sanitario nazionale che è tra i migliori al mondo.
In quest’ora grave che ci costringe alla riflessione, cerchiamo dunque di trarre qualche insegnamento da quanto ci è piovuto addosso, ma senza drammatizzare, anzi, con la lievità di chi, ieri, dai balconi e dalle finestre di molte città italiane ha improvvisato un canto, ha suonato uno strumento, ha battuto un tamburello col proprio bambino a fianco, per raccontare che siamo consapevoli, ma vivi e partecipi, e per formulare l’auspicio che “andrà tutto bene”.
Maria Gisella Catuogno
Foto di copertina di Federico Serradimigni