Quando l’8 novembre 1935 al Cotone, nell’unica camera affacciata sulla spiaggia e sul mare che allora lambiva le fondamenta delle case, nacque il figliolo maschio di Ilva (Natalina) Serena e Ferruccio (Feruccio) Bulleri, le truppe fasciste e i 60.000 ascari eritrei e somali di Emilio Del Bono conquistarono la lontana città etiope di Macallé, sconfiggendo l’esercito imperiale del Tigrai, armato di scudi e zagaglie, che il Regio Esercito aveva già avvelenato con l’iprite e bombardato dal cielo, vendicando così la sconfitta oltraggiosa subita dall’Italia ad Adua nel 1896, quando il Negus Menelik aveva chiuso le porte cristiane dell’Abissinia agli italiani che volevano un impero africano. Al bimbo, nato già forte come un toro, venne dato il nome eterno dei maschi delle due stirpi che si tramanda ancora: Oreste, Oreste Bulleri, perché Feruccio non sposò mai Natalina ma riconobbe anche le altre due figlie che ci fece.
Ma quel nome di pescatori e marinai rimase riservato alle sorelle: Feruccio e poi tutto il Cotone e la Marina lo chiamarono sempre Macallè - qualcuno Maccalè - in onore di quella vittoria fascista. Per me e per tutta la sua sterminata banda di nipoti era zio Macallè.
Quando l’impero di Mussolini e Re Sciaboletta si polverizzò di fronte all’offensiva degli inglesi e degli abissini e il negus neghesti Hailé Selassié, risalì sul trono imperiale, Macallè aveva solo 6 anni e andava a una scuola che abbandonò quasi subito, arrivando forse alla seconda dopo un paio di bocciature che erano la normalità. Oreste non lo sapeva, ma aveva davanti a sé altri 4 anni di guerra e di una fame insaziabile che da adulto sarebbe diventata quasi leggendaria.
Marciana Marina uscì quasi indenne dalla guerra, solo scheggiata da una bomba sganciata al Toro per dare sollievo a un aereo alleato e con il porto salvato all’ultimo momento da Oliviero Murzi dai nazisti tedeschi che lo avevano minato, più povera di prima, mentre contava i morti di un’altra inutile carneficina, inconsapevole del benessere che sarebbe arrivato tra non molto, ridipingendo i muri delle case erose dal salmastro e dalla miseria e mangiandosi la spiaggia del Cotone sulla quale Natalina scaricava direttamente il cancaretto dalla sua alta finestra.
Quando l’Italia fu liberata e Feruccio annegò volentieri nel vino il dolore della sconfitta del Duce, Macallè aveva quasi 10 anni e tutti si erano scordati della battaglia alla quale doveva il suo soprannome, fu probabilmente in quegli anni che ancora odoravano di guerra che cominciò a girare il paese per cercare sollievo al suo appetito e alla sua sete e, insieme a un bimbetto come lui, ma che avrebbe avuto un destino ben diverso, si inventò una canzone che qualche vecchio si ricorda ancora e che le nostre mamme ci cantavano come una scherzosa ninna nanna, una filastrocca che aveva due versioni e che faceva così: «Ce l’avete [ce lo date] un po’ di vino per il povero Perugino e un pochino [un goccino] di caffè per il povero Macallè?»
Mentre diventava un bel ragazzo riccio, con spalle larghe come un portone e un culo piccolo come due mele, con una forza spaventosa, si cominciò a capire che dietro il suo sguardo a volte perso e dietro un sorriso bello e amaro, c’era qualcosa di diverso. Era come quando in una giornata di scirocco il mare calmo e appiattito di Marciana Marina si scurisce di un tratto, accappona la pelle salata di un brivido forte e poi richiama le onde del largo che sfilano verso la Corsica. A Macallè succedeva così: a volte quel vento, quel brivido gli soffiava nel petto e nell’anima e gli scompigliava i pensieri, trasformandolo nel leone di Giuda della bandiera del Negus che lui non ha mai conosciuto, o meglio in un rinoceronte abissino del quale non sapeva nemmeno il nome. Allora, accecato dal mondo, prendeva a testate qualsiasi cosa. Una notte, mentre giocavamo a pallone in Piazza di Sopra, uscito malconcio da una zuffa al Bar Atlantic, se ne andava mogio mogio verso casa ma, arrivato davanti al forno di Elettra, si girò e, presa una breve rincorsa, con un urlo da kamikaze, dette una testata a uno dei lampioni ricurvi che illuminavano gli angoli della piazza, spengendoli tutti e quattro, poi, mentre noi lo guardavamo impietriti, terrificati e affascinati, prese il panchino di granito che ci faceva da porticina per la nostra partita di calcetto, lo scoperchiò con un altro urlo gutturale e spezzò in due quella seduta di pietra pesantissima scagliandola a un paio di metri da sé. Poi se ne andò, dando un’altra testata all’angolo del Bar La Perla che era il luogo abituale dove calmava così il vento cattivo che a volte gli soffiava nella testa.
Ma Macallè era tutt’altro che cattivo e pericoloso: era un bimbo di 8 anni nel corpo di un semidio greco, un’Ercole incapace di picchiare e che veniva messo a tappeto da uomini forti la metà di lui ma più avvezzi alla rissa e alla malizia, toreri da bar che portavano con precisione spietata il colpo al toro accecato che carica a testa bassa.
Grazie alla sua forza quel bimbo̸uomo trovava lavori e lavoretti, portava le bombole insieme al suo amico Caramella - morto giovane e che diversamente da lui parlava di politica e di donne e sapeva di filosofia - e le turiste l’estate si voltavano volentieri, facendo finta di guardare il mare, per lanciare una languida occhiata ai muscoli guizzanti di quei ragazzi muscolosi, nudi fino alla cintola e scalzi dentro i pantaloni di anchina induriti dal sale e dal sole.
Poi Macallè cominciò a lavorare sulle zaccarene dove, finita la pesca, durante il rientro alla Marina inseguiti dai gabbiani, riusciva a mangiarsi da solo una cassetta di sardine o di acciughe appena scottate. Fu dopo una di queste pescate, abbondante ma fatta ormai quasi a giorno, che andarono a portare il pescato a Piombino e furono pagati così bene che il capobarca invitò tutti al ristorante dicendo che potevano prendere quel che volevano. Macallè lo prese sul serio e mangiò – così narrava la leggenda - 7 primi e 7 secondi, poi avendo ancora un po’ di fame, si riempì le tasche dell’insalata rimasta in una zuppiera ricolma, si fece dare un filo di pane dall’oste e sbocconcellò il tutto lungo la strada tra la Stazione e il porto.
Quando cominciammo a diventare più grandi, lui che non so’ nemmeno se sapesse leggere e scrivere, si era fissato che dovevamo studiare e a volte, staccato un ramo flessibile di tamerice, ripulitolo dalle foglie argentate e pennate che sputano sale, trasformatolo in frustino, ci veniva a cercare nei nascondigli degli scogli dell’Omo – gli stessi dove lui pescava - per mandarci a scudisciate sui polpacci a studiare quel che lui non aveva fatto. Però, non avendo dimestichezza con la scuola ci veniva a scovare anche quando l’anno scolastico era già finito. Risolvemmo la cosa andando a marinare la scuola o pescare ghiozzi il pomeriggio da un’altra parte dove lui non andava, lontani dal suo e dal nostro Cotone.
Se non ricordo male, sparì una prima volta dopo una serie di testate su un muro, ma ritornava e trovarci con il suo simpatico sorriso sempre più storto e sdentato e il suo frustino pedagogico.
Fu la seconda volta che lo vennero a prendere, probabilmente perché qualcuno si era infastidito per una sua intemperanza da bimbo forzuto, che segnò la sua vita. E Macallè lo capì. Allora era davvero diventato l’ispido leone di Giuda che vedete nella foto mentre sorride a qualcosa lontano, forse al gabbiano addomesticato da Natalina, ma reagì con strepito di elefante e ci vollero diversi uomini, una camicia di forza e iniezioni da cavallo per tirarlo fuori dalle ripide scale che portavano alla casa dove era nato e poi di nuovo al manicomio di Volterra.
Tornò qualche volta in rapidi e sempre più rari permessi premio per rivedere il suo mare e i suoi scogli, ormai sempre più estraneo e dimenticato in quel paese ricco e pieno di ristoranti. Fu in uno di questi suoi ritorni, avrò avuto 17 o 18 anni, che ebbi con lui l’ultimo incontro marinese: ero nella minuscola spiaggetta che si formava a volte, secondo il sentimento del mare, dopo l’Omo, discesi gli scogli neri e marroni, che sembrano squagliati e raggrumati dal sole, prima della spiaggetta della Madonnina, che mi scambiavo baci e qualcos’altro con una ragazza che aveva la mia stessa urgenza e Macallè, con un filaccione in mano e a capo basso in cerca di granchi frulloni, ci calpestò letteralmente, terrorizzando la ragazza che stava approfittando della mia inesperienza. Ma lui era più spaventato di lei e cominciò a dire: «Non lo dico a nessuno, non lo dico a nessuno… nemmeno alla tu’ mamma e alla tu’ nonna», Poi fuggì scalzo sugli scogli e la spiaggia della Madonnina, senza probabilmente ascoltami mentre gli dicevo «Non è successo niente, non è successo niente, zio». Fuggì spaventata anche la ragazza che seguii trafelato.
Poi, mentre raggiunta la ragazza le raccontavo che quell’uomo riccioluto era mio zio e la sua storia, mi resi conto che in quel momento, su quella effimera spiaggia di sassi, davanti a quel mare verde di vetro, io e Oreste eravamo tornati due bimbi di 8 anni: lui col suo frustino di tamerici e io a marinare la scuola e la vita e che le nostre mamme non dovevano saperlo.
Lo rividi solo diversi anni dopo, portammo la mi’ mamma a trovarlo in quello che era diventato l’Ospedale psichiatrico di Volterra, molto probabilmente non sapeva più chi ero. Lu si era sposato con una paziente dello stesso ospedale e aveva avuto due figli e lavorava con la forestale, che apprezzava la forza che ancora conservava. Lo portammo a mangiare nella trattoria oltre il ponte che collegava il manicomio e la città etrusca, dove tutti lo conoscevano e lo chiamavano con il suo nome riconquistato: Oreste.
Il vento che soffiava nei suoi pensieri di erculeo accecatore di lampioni e distruttore di panchini di granito era stato placato dalle medicine e anche la sua fame leggendaria si fermò al mangiare, con evidente appetito, una porzione gigante di lasagne al forno e un abbondantissimo secondo. Di lui, dell’uomo barbuto e muscoloso che faceva voltare le turiste, rimaneva, pur senza più un dente, quel sorriso stranamente felice e triste nello stesso tempo.
Macallè morì qualche anno dopo fuori dal manicomio, ormai liberato da Basaglia, in quella che era diventata la sua casa. Se ne andò via sereno in un letto, dimenticato da tutti e con una gamba in meno. L’avrà ritrovata sicuramente tra gli scogli dell’Omo nelle notti stellate, quando torna non visto, spettinato come un leone di Giuda e un bimbo di 8 anni, a calare i filaccioni e a guardare la Madonnina che lo saluta con il suo stesso sorriso, bianca sotto la luna sugli scogli neri.
Umberto Mazzantini