Con Antonio Serena, al secolo Gogo, ero parente, visto che la su’ mamma e lui portavano lo stesso cognome della mia e che la giovane sorella Albarosa mi teneva sulle ginocchia mentre Jole andava a fare la sguattera e a strusciare scale in giro. Insomma, siamo cresciuti nella stessa povertà che ci affratellava senza pregiudizi, perché di pregiudizi non potevamo permettercene.
Antonio aveva la sindrome di Down, era, come si diceva crudelmente allora, mongoloide, ma queste due parole a Marciana Marina per lui non vennero mai usate, anche se “Gogo” diventò sinonimo di uno che fa o dice qualcosa di sciocco, fa qualcosa di inappropriato a quel dato momento, non prende bene le misure. Eppure Gogo sapeva essere a suo modo scaltro fino alla malizia, tanto da barcamenarsi senza problemi tra due Chiese differenti.
Non a caso Antonio Serena mi è venuto a mente oggi, Primo Maggio, un giorno particolare per Gogo che era sia sagrestano della Chiesa di Santa Chiara che comunista con tanto di tessera. Il Primo Maggio Gogo non lo passava con i compagni ma – come del resto quasi tutto il paese e tutti/e i bimbi/e e ragazzi/e - a festeggiare San Giuseppe lavoratore e Maria Vergine al santuario della Madonna del Monte, anche se prima un’occhiata compiaciuta alla bandiera rossa con la falce e martello e la stella ricamate in oro, che i suoi compagni avevano messo fuori dalla sezione di primo mattino, la dava volentieri e con gli occhi lucidi dietro gli occhiali spessi come il fondo di una bottiglia di cristallo.
Quando tornava dal pellegrinaggio e dalla mangiata di fave e baccellone, già bello carico del vino che non disdegnava affatto e che trincava a bicchieroni tutto di un fiato, Gogo trovava ad aspettarlo una copia de l’Unità, coi titoli rossi speciali per quella giornata speciale, che i compagni gli avevano messo da parte dopo la diffusione straordinaria casa casa. Quella copia (o almeno la prima pagina) finivano nell’archivio personale di Gogo, che era un archivio molto particolare.
Antonio, almeno quando me lo ricordo io, aveva un “girovita” strano, a ciambella, e le nostre mamme ci dicevano di non toccarci troppo il pisello perché a furia di farlo ci sarebbe cresciuto così tanto che avremmo dovuto arrotolarcelo intorno alla vita come era costretto a fare Gogo. In realtà tra la maglia e la cintola Antonio portava arrotolato con sé il suo prezioso archivio di documenti, ritagli di giornale e volantini comunisti e una vera e propria collezione di simboli del PCI che, per la nostra disperazione, ritagliava non appena asciugava la colla con la quale li avevamo attaccati ai muri, lasciando così anonimi gli slogan del suo stesso Partito.
Antonio doveva conciliare anche il suo essere allo stesso tempo sagrestano di Don Livio Zeni e comunista e cominciò a risolvere il dilemma così: servita messa, mentre Don Zeni si preparava a dire “Ite, Missa est, andate in pace”, lui preparava la guerriglia comunista. Scappava lesto in sacrestia, usciva dalla porticina nella piazzetta di Santa Chiara, scivolava rapido accanto alla fontana cubica con la vasca a conchiglia, aggirava la chiesa, risaliva i tre gradini sul sagrato in Piazza di Sopra, appena in tempo per l’uscita del primo fedele che si era appena riconciliato con Dio e con il mondo, e cominciava: «Beee, escono le pecore, beee escono le pecore…», mettendo blasfemamente insieme, ma con una sintesi invidiabile, l’Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo , il Salmo 23 (“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce”) e la “religione oppio dei popoli” di Karl Marx. Una sintesi dialettica a suo modo efficace ma che non piacque per niente né a Don Zeni né al segretario del Partito Comunista – che credo fosse allora Piero “Baffo” Mazzei - che alla terza o quarta domenica, che si ripeteva l’affronto, dopo essersi consultati, intervennero per quanto di competenza di ognuno per mettere fine allo scandalo politico/teologico. Gogo, di fronte a quella santa alleanza, ubbidì e tacque.
La fede comunista di Gogo eclissava quella cattolica soprattutto in tempo di elezioni, quando cominciava a girare il Paese a dire che in caso di vittoria del PCI si sarebbero pareggiati tutti i conti e riaperti i campi di lavoro in Siberia, cosa che fino a un certo punto era quel che pensavano, senza dirlo, anche diversi vecchi stalinisti, ma che diventò imbarazzante quando Enrico Berlinguer cominciò a parlare della necessità di un compromesso storico tra PCI e Democrazia Cristiana.
Nonostante queste evidenti dissonanze di opinione, Gogo adorava Berlinguer, un uomo minuto e con un sorriso timido che gli dava sicurezza e nel quale riconosceva la bontà dei giusti. Quindi la giovane segreteria del PCI marinese decise di tentare l’ultima carta: una falsa lettera di Enrico Berlinguer al compagno Antonio Serena nella quale gli veniva intimato di smettere qualsiasi tipo di propaganda elettorale nell’interesse supremo del Partito. Gogo guardò sbalordito la lettera con la falsa firma di Berlinguer, balbettò qualcosa con gli occhi lucidi per l’emozione e sospese all’istante i suoi giri elettorali per il paese a gridare slogan contundenti. La finta lettera di Berlinguer finì probabilmente tra i cimeli più preziosi del suo archivio “girovita” e, passate le elezioni, nelle quali il PCI ebbe un buon successo, Gogo ricominciò come prima la sua beata passeggiata quotidiana in equilibrio sul filo tra lo stalinismo e la sacrestia. Un internazionalismo cattocomunista che veniva propagato tra le vie di granito e sassi del più piccolo Comune della Toscana, che per lui era dove cominciava e finiva tutto il mondo.
Gogo aveva anche un’altra grandissima passione: la Sampdoria che, come il PCI, raramente gli dava la soddisfazione di una vittoria. Don Zeni era invece un milanista sfegatato. Un lunedì mattina, allora facevo il manovale con Ascanio Tori, eravamo in chiesa su un’alta scala a riparare credo uno dei lucernai a mosaico in alto e, sotto di noi, Don Zeni leggeva il messale facendo nervosamente su e giù nel corridoio tra le panche in mezzo alla navata, probabilmente anche perché il suo Milan aveva perso disastrosamente proprio contro la Sampdoria. La porta della chiesa si aprì cigolando e, nella luce che veniva dalla piazza, si stagliò l’inconfondibile sagoma di Gogo che, facendo ripetutamente e vigorosamente il gesto dell’ombrello, comincio a urlare: «4 a 1, tiè! 4 a 1! Samp 4 Milan 1!». Mentre le parole profane rimbombavano nel luogo sacro e noi ce la ridevamo in alto accanto a qualche santo, Don Zeni fece avvicinare l’imprudente sacrestano comunista ancora di qualche passo, poi posò lesto il messale sulla spalliera di una panca e, presa la corsa inseguì Gogo che, capita la mala parata, stava tentando un’impossibile fuga: il prete prese Gogo per la collottola, gli affibbiò due o tre scappellotti ben assestati nel “topezzo” e con un calcio in culo lo fece uscire dalla porta da dove era entrato. Ritornando evidentemente più rasserenato sui suoi passi, l’ormai anziano sacerdote, ripreso il messale in mano, sollevò gli occhi verso il cielo, non so se rivolti a noi che lo guardavamo sbalorditi e divertiti o a Gesù e Santa Chiara, e disse: «Quando ci vuole ci vuole». Poi riprese le sue sacre letture dove avrà cercato e sicuramente trovato il perdono, essendo tra l’altro molto probabilmente convinto, in cuor suo, che Dio fosse milanista.
Prima di Pasqua Don Zeni faceva il giro del paese e delle campagne a benedire le case e in cambio riceveva soprattutto compensi in natura e in particolare moltissime uova. Gogo era il portatore dell’enorme paniere con le uova e quello che approfittava di più dei bicchierini di vino, aleatico, moscato e rosolio offerti da fedeli e infedeli. La piccola processione benedicente arrivò anche a San Francesco e Don Zeni chiamò la mi’ mamma per vedere se c’era e venire a benedire la nostra casa di 2 stanze. MI affacciai anch’io sul terrazzo di granito e chiesi dove fosse Antonio. Don Zeni, con un sorrisetto malandrino e un cenno della testa e del dito, mi fece capire che Gogo si era nascosto sotto il terrazzo per non farsi vedere da me che ero diventato da poco segretario del PCI. Io allora, di fronte a un divertitissimo Don Zeni, dissi: «Vieni fuori, compagno Serena, traditore, lo so che sei lì sotto». Lui contrito, con il cesto di uova ricolmo in mano, fece la sua mortificata comparsa sul lato della fonte, prima della volta tra le case e che apre la strada che porta al mare, e disse più o meno a mo’ di scusa che lui non lo avrebbe voluto fare ma che lo aveva costretto il Prete. Tutto finì, con grande divertimento mio, di Don Zeni e di chi aveva assistito alla scena dalle finestre accanto, con la benedizione di quella casa di comunisti e con un generoso coppolone di vino del Battani che rimise Gogo in pace con il mondo, la Quaresima e il Partito.
Antonio Serena è stato una fabbrica umana di episodi curiosi, aveva una tenerezza indomabile e una testardaggine leggendaria, era probabilmente una delle anime fragili di Marciana Marina, quasi come se fosse sempre esistito, diventato parte della nostra identità, della voglia di non lasciare davvero nessuno indietro.
Quando se ne andò, il Partito Comunista marinese affisse nella sua bacheca forse il più bel manifesto politico mai scritto in Paese: “I Comunisti di Marciana Marina piangono il compagno Antonio Serena, sampdoriano, sacrestano, comunista”.
Sono convinto che Gogo lo abbia salvato nel suo arrotolato archivio celeste che conserva in Paradiso.
Umberto Mazzantini