Quella di oggi non è una delle figurine del mio album, non ha niente di sopra le righe, di politico e strano. Anzi, era uno degli uomini più stimati e riservati di Marciana Marina. Alto, con le ossa e i muscoli grandi, silenzioso ma con la parola che in una discussione segnava la fine. Uno che a guardarlo incuteva rispetto. Solido come uno scoglio.
Insomma, se fosse stato un calciatore dei nostri mai finiti album delle Figurine Panini sarebbe stato uno di quegli oriundi che sul campo giocano da soli, fuoriclasse che fanno gol memorabili, illuminano un campionato di squadre di mezza classifica ed entrano nella leggenda, ma non nelle chiacchiere dei giornali sportivi e rosa. Una specie di Socrates della lenza.
Con Manlio probabilmente non ci ho mai parlato, ma era normale, gli uomini come lui non davano confidenza ai ragazzini e se c’è una cosa che ho imparato è che i grandi pescatori sono gente silenziosa, che sfugge i bar e le discussioni, anche se non disdegnano quasi mai un buon bicchier di vino. E’ gente che ha con il mare un rapporto intimo fino alla sacralità, come Cesarino Baroni, che trattava come spose vedove rimaritate le sue barche pitturate di nero e ornate di strisce di colore e che, quando prese nel mare di cobalto della Punta del Nasuto la leccia dei suoi sogni, la scaricò per pudore, di nascosto, sotto casa per non sentire commenti e complimenti, oppure Aniello Mattera che mentre parlava in silenzio con il mare e i pesci sentì la tacca di fondo – lo squalo bianco – mordere e sollevare il suo guzzo e quando, tornato a riva, lo tirò in secca trovò i denti della bestia conficcati nel fasciame della pancia e nella chiglia, oppure Scopino, Scopamare, fornaio all’alba e pescatore tra le stelle la notte, senza letto, o Luchino stregatore di polpi che ha passato una vita col capo nello specchio a scrutare i fondali e a remare con un piede.
Ce ne sono ancora oggi di pescatori bravi a Marciana Marina, quasi tutti taciturni e ombrosi, per non far torto a nessuno di questa schiatta, penso a Piero il Fiocinaro, Il mi’ cugino, che in un’estate di nattelli e occhiate e mare bianco – che forse qualche volta racconterò - mi ha insegnato le poche cose che so’ sulla pesca senza reti.
Ma Manlio, che aveva per ogni pesce una lenza e un attrezzo che teneva nel piccolo magazzino in Viale Margherita, dove allora i pescatori stendevano km di reti per rinfrescarle e rammendarle, come fossero un enorme bucato scuro come il sangue, era sicuramente il migliore di tutti, il pescatore di ragni, come chiamavamo allora i branzini che oggi troviamo allevati e grassi sui banchi dei supermercati.
Il ragno di mare, non quelli impigriti di allevamento, è un predatore eccezionale, mi ricordo un giorno di averne visto uno in caccia nel porto, sotto la Torre, inghiottire, veloce come un motoscafo, un ratto che correva disperato lungo il cornicione della banchina, sul pelo dell’acqua, tra il granito e il mare.
Ma veniamo alla storia, alla fotografia in bianco e nero che mi è rimasta in testa.
Credo fosse novembre. Il porto era deserto, spazzato da un vento teso e senza onde e con una stirazza di piombo che segnava ritmica il tempo con uno sciabordio sulla spiaggia. Non pioveva, ma il continente e Capraia erano stati già inghiottiti da una cortina nera di nuvole che annunciavano un nubifragio.
Avrò avuto 13 o 14 anni, il periodo in cui credi di essere già un uomo e gli uomini – e ancor più le donne - nemmeno ti calcolano, ero probabilmente con Franco Galletti in una delle nostre oziose passeggiate e, all’altezza del moletto, dove c’è la fonte, c’era un gruppetto di uomini che guardava qualcosa lì sotto. Quel qualcosa era Manlio che guardava un’altra cosa che gli altri non vedevano: un ragno gigantesco che nuotava nell’acqua grigia e marrone, di fronte al moletto, nel lato del bottino, dove sfociava la fogna che le anguille risalivano per raggiungere i laghetti che allora rinfrescavano le pendici di Monte Capanne anche l’estate e che ridiscendevano per andare a far l’amore nel lontano Mar dei Sargassi.
Ci fermammo anche noi a guardare quell’uomo che guardava il mare e uno ci disse a bassa voce come se avesse paura di disturbare una messa cantata: «Ha visto il ragno». Manlio passeggiava sulla minuscola riga di sassi senza nemmeno farli scricchiolare, poi saliva sul molo che percorreva a passi lenti vedendo il ragno in increspature, brividi, cambiamenti di colore dell’acqua che noi nemmeno percepivamo… e il pesce vedeva lui e lui lo sapeva.
Poi, dopo aver misurato il mare e sentito il pesce, andò calmo al suo sgabuzzino e tornò con la lenza arrotolata al grosso nattello quadrato di sughero, che sapeva sarebbe stata quella giusta e, a chi gli chiese com’era, rispose asciutto: «E’ lunga».
Restammo per qualche minuto insieme agli altri a osservare i suoi gesti misurati, torniti in anni di infinita pazienza ed esperienza, poi continuammo la nostra passeggiata verso il porto e al ritorno, forse un’ora dopo, trovammo Manlio ancora lì, completamente disinteressato al capannello di curiosi e sfaccendati che era aumentato. Il ragno era scaltro, non abboccava. Aveva resistito a diverse esche appetitose, ma Manlio non sembrava per niente meravigliato o scoraggiato per quei rifiuti.
Fece un’altra volta su e giù dal moletto, con lunghe soste indecifrabili, scese sulla spiaggia sgomitolò qualche metro di lenza e la innescò con qualcosa che si dimenava e che aveva tolto da un sacchetto. Lanciò l’esca in un punto preciso, con un gesto misurato fino al millimetro, poco lontano dalle scalette che si aprono sul moletto verso il porto, e il topo comincio a nuotare impazzito verso riva, il mare si spalancò in una bocca grigia come lui e il topo-esca scomparve. Manlio lasciò andare passi di lenza, incurante dell’eccitazione nostra e degli altri. Sapeva che la battaglia era appena cominciata e che il ragno, che non era certo una delle perchie o dei cacì colorati che pescavamo con le petate agli scogli del Cotone, era un vecchio giocatore di scacchi marino, uno stratega di attacchi e fughe, un combattente feroce che non avrebbe ceduto tanto facilmente.
Ci vollero lunghi minuti, forse mezz’ora perché, lì, in quella riga verde di erbino e alghe che era il confine tra la spiaggia e il mare che era il regno di quell’uomo silenzioso, alla fine arrivasse l’enorme ragno, boccheggiante, stremato, ma ancora mordace e arrabbiato per la sconfitta. Grigio come l’acciaio e bianco, con le squame spettinate e le garge pulsanti a cercare l’acqua che non c’era più.
Il pescatore di ragni lo raccolse e lo portò via, senza un commento, un vanto o una fotografia, con il rispetto che si deve a un animale vivo, perfetto, feroce e intelligente, che divide con noi questo mondo blu fatto di mare.
Umberto Mazzantini