Se penso ad Adamo penso a un remo, un remo lungo, Affilato, con le crepe nella vernice e le venature del legno in vista, stagionato eppure flessibile, che sembra liscio ma, se ci pensate, è pieno di curve, ingrossamenti, appiattimenti e spigoli arrotondati, posti dove mettere le mani, lo scalmo e il mare, croste di vernice che vengono via. Ma Adamo era un remo dinoccolato, lungo e scompagnato, senza apparentemente neanche uno scalmo a cui poggiarsi, utile solo per andare alla deriva. Era la barca a torzo che gli piaceva essere, il guzzo che girava in tondo, senza reti o palamiti, che prendeva colpi di vento e cavalloni, beato e affranto nello stesso tempo.
E la prima immagine che ho di lui è proprio con un remo in mano, portato eretto in processione come una croce blasfema. Era un remo lunghissimo della 10 remi di Marciana Marina, rossa e potente. Un remo del quale si era appropriato per diventare il giullare celebrante e spiritato dell’ennesima vittoria di quell’equipaggio di uomini muscolosi che erano la gloria e il vanto di un intero Paese, mentre intorno a lui una banda di bimbi impazziti di gioia cantava: «Acqua, acqua, acqua minerale, per vincer La Marina ci vuol la nazionale! Acqua, acqua, acqua cristallina, per far la nazionale ci vuole La Marina!».
Erano tempi ancora duri e innocenti, ma già illuminati di speranza, vedevamo il futuro e noi bimbetti lo guardavamo passare davanti agli scogli del Cotone: era una freccia rossa che apriva il mare, spinta dalle braccia dei Tondi, di Gigi Mattone e di altri ragazzi e uomini forzuti, sperando che un giorno Adamo avrebbe portato il nostro remo di vincitori… o, in alternativa, che saremmo diventati un campione della Fiorentina o della Juve, oppure ballerini micidiali del ring come Cassius Clay, ma ci saremmo contentati anche di essere Nino Benvenuti o Sandro Mazzinghi.
Poi i tempi cambiarono, rapidi come una barca da corsa, la speranza diventò benessere e la 10 remi, il simbolo rosso del Paese, finì i suoi giorni tra le pecidi accanto al ponte della Finiccia, ricordo di glorie presto passate e di sogni e tempi svaniti.
Per Adamo, nato a San Paolo del Brasile, emigrante di ritorno, figlio di chi aveva come tanti alla Marina, cercato invano fortuna nelle Americhe, il futuro non era mai arrivato e continuava a fare lavoretti, a portare le valige dei turisti e a declamare il suo slogan preferito e falsamente edonistico: «Al bare o al mare», in attesa che passasse l’estate e di andarsene a svernare in galera al caldo e con un pasto assicurato.
Quell’uomo con gli occhi chiari di fuoco, un sorriso sottile e beffardo come un taglio stampato sulla faccia e in testa il basco scuro, di un blu nero come la notte, che era sulla testa di quasi tutti gli uomini del dopoguerra - ma che poi Adamo mutò in un cappello bianco da capitano di nave che diventò la divisa degli improvvisati facchini marinesi - per essere certo di essere ingabbiato sfruttava tre cose: la sua passione per le processioni, il suo problematico rapporto con Dio e i Santi del Paradiso e il suo talento istrionico, da attore girovago, che mandava in bestia i carabinieri con le repliche del suo teatro stabile.
Una volta delle sue imprese ne scrisse perfino il Corriere Elbano, dando notizia che Adamo Lambertini era stato arrestato «sotto i fumi dell’alcool durante un comizio pubblico a base di moccoli». E’ probabile che fosse proprio lo stesso comizio al quale ho assistito io un 12 agosto, Santa Chiara, con Adamo piantato proprio in mezzo agli Scali Mazzini, davanti al Bar La Perla pieno di clienti ai tavolini, al crocevia di fronte alla spiaggia e alla porta spalancata della Chiesa dalla quale si aspettava che uscisse la statua della Santa patrona.
Adamo toltosi il cappello, con indosso una maglietta bianca che aveva visto giorni migliori e con in corpo probabilmente qualche litro di vino, iniziò con voce stentorea un elaborato e fantasioso comizio, un rosario infinito inanellato di bestemmie, nel quale non mancò di infilare, per aggiungere un po’ di piccante, il sindaco Piccio e il segretario comunale Tancini, Chiara e suo cugino Francesco, i preti, il Papa, il vescovo e i carabinieri.
E, mentre i turisti si chiedevano allibiti cosa stesse succedendo, i bimbetti e i marinesi accorrevano divertiti o orripilati (o entrambe le cose) a vedere la mattanata e Sergio del Bar, appoggiato all’entrata della Perla, guardava e ascoltava Adamo con un sorriso sornione, aspettando l’irreparabile, furono proprio i carabinieri che arrivarono in alta uniforme, appena stirata per la processione, e facendosi spazio tra la gente, agguantarono il tribuno moccolante e, tra qualche protesta e gomitata, se lo portarono via come un Pinocchio stagionato, ma per vilipendio alla religione e qualche altro reato accessorio.
Adamo faceva cosi: Santa Chiara per lui segnava già la fine anticipata dell’estate e del caldo, dei soldi rimediati e della bevuta facile, era già tempo di andare in letargo, di dare tregua a una strana amarezza, e per riuscirci faceva irruzione come ospite indesiderato alla festa della Santa Patrona, a volte prima che partisse in processione verso il porto e la zaccarena illuminata la portasse in una corteo di barche a salutare la Madonnina, ritta sul suo scoglio già nel golfo di Procchio, a volte disturbando direttamente la processione, scandalizzando le pie donne, mentre il paese si illuminava di fiammelle dei lumini seminati sulle murette e sugli scogli, candelotti e cera fusa che noi bastardi facevamo esplodere tra i turisti terrorizzati sputandoci dentro e scappando lontano dalle gonne e calze strinate di donne urlanti e dai calci a vuoto dei mariti e fidanzati.
Era, quello con Adamo e i suoi comizi di moccoli, quasi un appuntamento fisso con qualcosa che sembrava follia e che invece era lo sberleffo a un paese che a modo suo Adamo amava molto e dal quale era riamato e perdonato. Era il nostro giullare di corte gratuito, quello che grida il re è nudo, chi ci mostra uno specchio nel quale preferiamo non guardarci ma che ci affascina, come quando da giovani scalavamo i 13 metri dello scoglio della Leccetta e guardavamo di sotto il mare, con la voglia e la paura di tuffarci, sapendo che comunque, arrivati lì in cima l’unica cosa possibile era farlo.
E Adamo si tuffava nel canto, nelle risate, nella festa, nelle lacrime e nello scandalo di un paese intero, senza vergogna e timore, sfrontato come un ragazzo che sa che in fondo, se trovi il coraggio di buttarti, anche se ti scomponi durante il volo, non ti farai poi tanto male. Era un vecchio Icaro con gli occhi illuminati da un briciolo di follia, senza la quale non c’è il coraggio della parola e del gesto sconsiderati, e al quale ricrescevano le penne bruciate dal sole dopo ogni volo e caduta.
E in questo non c’era niente di partitico, non mi ricordo che Adamo, con i suoi dissacranti comizi anarcoidi, fosse troppo simpatico ai comunisti, ma non era nemmeno detestato dai democristiani, era semplicemente lì, dove doveva essere e stare: tra il bare e il mare, tra Dio e i carabinieri, tra Santa Chiara e Porto Azzurro, un’equilibrista della libertà, una rondine di mare che svernava in galera perché nemmeno una cella, o poi l’ospedale, poteva rinchiudere quegli occhi chiari e amari e quel sorriso beffardo.
Umberto Mazzantini