Caro Sergio,
ho letto con interesse la tua “A sciambere: Covid e rischio bufale”, condividendo da semplice cittadino le tue ragionate osservazioni rivolte all’amico carissimo Roberto. Mentre ti leggevo mi si sono riaccese due lampadine, rimaste pressoché spente dagli anni in cui frequentavo la scuola elementare del mio continentale paesetto, dove sono nato e cresciuto (poco!), fin quando mi sono poi trasferito all’isola diventando un elbano non DOP ma DAP (denominazione acquisizione protetta). Le due “lampadine” mentali in realtà sono due immagini rimaste impresse nella testa di quel bimbo che ero: un manifesto, e un cubetto di zucchero.
Qualcuno che pazientemente ci sta leggendo si chiederà cosa c’entrino le “lampadine” che accendono i ricordi con il tuo “A sciambere”. Bene, chi come noi ha superato le sessantacinque primavere forse qualcosa ha già capito, ma vado avanti per spiegarmi con tutti.
Il manifesto era affisso nell’atrio della mia scuola elementare “Nazario Sauro” così come in tutte le italiche scuole del dopoguerra e raffigurava un bambino piangente con maglietta a strisce, senza mani e con i polsi fasciati che teneva un camioncino stretto dall’avanbraccio; alla sua sinistra c’erano alcuni proiettili e ordigni vari, alle sue spalle una deflagrazione che lanciava in aria altri bambini. In basso c’era scritto bene in grande “Se trovate un oggetto simile NON TOCCATELO! Avvisate subito i Carabinieri”. I campi intorno erano pieni di quegli ordigni, lasciati dal passaggio di una scriteriata guerra, di conquista prima, di liberazione poi. In quei primi anni di pace, ogni tanto qualche trattore che arava un campo saltava in aria quando il vomere agganciava un ordigno, altre volte erano i ragazzini a giocare con trovanti pericolosi (non c’erano ancora i tablet da divano), ma il più delle volte erano gli adulti a perdere arti, occhi e qualche volta la vita quando, spinti spesso dalla necessità, raccoglievano i proiettili da smontare e venderne l’ottone per portare pane e minestra a casa.
L’altra lampadina è un cubetto di zucchero sul quale venivano messe due o tre gocce di qualcosa che a noi bimbi non interessava poi tanto: in composta fila indiana, un passetto dopo l’altro, ognuno di noi arrivava davanti al medico in camice bianco, seduto, con un vassoio di acciaio sul tavolo pieno zeppo di zollette di zucchero. In piedi, lingua ben fuori, il medico ci appoggiava la delizia, e “cru-cru-cru” si masticava felici lo zucchero e si tornava nel banco (di legno, in un tutt’uno panca-tavolino e soprattutto senza ruote). Si accendeva in noi un certo orgoglio dopo quel gesto, qualcosa che somigliava a farci sentire un po’ più grandi di un minuto prima, come avessimo conquistato una chissà quale piccola vetta di montagna.
In realtà, senza che noi ancora lo sapessimo, una non piccola vetta l’aveva davvero conquistata il Dottor Sabin. Albert Sabin (nato Abram Saperstein) era un medico polacco naturalizzato statunitense (DAP americano come con immeritato accostamento sono io DAP elbano), scoprì un vaccino in grado di contrastare e vincere il terribile virus della poliomielite, detta anche paralisi infantile, una malattia terribile, molto contagiosa, che procurava gravi ed irreversibili disabilità. Il poliovirus attaccava (possiamo usare il tempo passato dato che da anni quasi - quasi! - l’intero pianeta è polio-free) il sistema nervoso causando paralisi di una o più parti del corpo. I casi polio furono decine di migliaia, e spesso oltre la paralisi sopravveniva il decesso.
Va qui colta doverosamente l’occasione, visto che l’ho citato, anche per ricordare l’aspetto filantropico di Sabin (40 lauree honoris causa, ma mai premio Nobel!) il quale decise di non brevettare la sua scoperta, dedicandola a noi bambini. Le sue parole in proposito furono: «Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo.» Cose evidentemente di altri tempi, altre menti!
La nostra adorata maestra Mariangela (una sola per una trentina di bimbi), ci spiegò che il nostro sistema immunitario agiva come un piccolo esercito schierato a difesa del corpo in cui abita, ovvero noi. Più o meno - quasi sessant’anni fa - queste furono le sue parole: “se i soldati riconoscono il nemico (l’infezione) lo attaccano e cercano di sconfiggerlo, ma questo avviene solo se l’esercito lo riconosce quel nemico, e se dispone delle armi giuste, perché quando non lo riconosce o non è in grado di affrontarlo, ecco che ha bisogno di rinforzi per non essere sconfitto… ha bisogno del vaccino che gli porti armi adeguate”.
La maestra andò oltre, ci spiegò anche come il temine “vaccino” derivasse dal termine variolae vaccinae, ossia “vaiolo della vacca”, introdotto nel lontano 1798 da Edward Jenner, un medico inglese considerato il padre dell’immunizzazione [fonte Wikipedia], il quale giunse a sviluppare il primo vaccino contro il terribile virus variola, comunemente e tristemente noto come vaiolo. Jenner infatti si accorse che chi mungeva le vacche e si infettava di vaiolo bovino (da qui vaiolo della vacca - vaccino), non sviluppava più il vaiolo.
Passarono quasi due secoli durante i quali la scienza andò avanti.
E dal 1967 l’OMS avviò il programma di eradicazione del vaiolo ricorrendo alla vaccinazione obbligatoria. Ancora una volta tutti, i bambini e noi divenuti quasi adolescenti, ci presentammo stavolta col braccio sinistro scoperto per la vaccinazione antipolio.
È così che furono salvate tante vite, tutte quelle che in assenza dei “rinforzi” introdotti per dare una mano al sistema immunitario, si sarebbero perse. Un esempio a me vicino? Eccolo: nel 1920 mio zio era morto all’età di appena otto mesi, e sai di cosa Sergio? Di morbillo. Perché il vaccino ancora non c’era. Si doveva aspettare ancora una volta quegli anni “60 perché si giungesse alla scoperta del vaccino salvavita, quello che il piccolo zio Renzo non aveva avuto. Per lui e per moltissimi altri sarebbe stata davvero “...l’unica via di salvezza”.
Io credo che la mia maestra sia stata una buona maestra dato che da quel tempo, complici alcuni parenti e amici medici, non ho mai avuto dubbi sulla necessità di ricorrere alla vaccinazione almeno contro i virus più pericolosi, come il tetano per fare un altro esempio forte, riservandomi di rinunciare - fino ad alcuni mesi fa - alla routinaria campagna antinfluenzale. Dico fino ad alcuni mesi fa perché quest’anno ho seguito le raccomandazioni dei medici che consigliavano di vaccinarsi dai sessanta sessantacinque in su, per l’ordinaria influenza stagionale.
Da geologo più autunnale che primaverile non faccio fatica a non comprendere i terrapiattisti: ho imparato a non meravigliarmi più di quasi nulla - con la sola esclusione delle straordinarie espressioni della natura -, neanche del fatto che ancora ci sia chi nega le evidenze a tutti (!?) note sul sistema solare e oltre, nega l’evoluzione darwiniana delle specie inclusa la nostra, nega che la pandemia sia una catastrofe sanitaria sociale ed economica. Da sostenitore della campagna di vaccinazione per questa odiosa disavventura pandemica da Covid-19 che solo in Italia ha contagiato oltre due milioni e mezzo di persone e fatto oltre 89.000 vittime (nel mondo 103 milioni di contagi e oltre 2,2 milioni di morti), e portato l’economia a livelli che dirli pericolosi è poco, mi resta difficile accettare che ancora qualcuno creda che ottimi sostituti dei vaccini possano trovarsi in tisane, verdure fresche, attività fisica e esposizione ai raggi solari… tutto lecito e salutare, ci mancherebbe, ma credo che se anche le poniamo tutte assunte in simultanea (lascio la parola agli esperti) facciano men che meno che sorridere il coronavirus SARS-CoV-2, più conosciuto come COVID-19 che ne è la malattia associata.
Gli scienziati e il personale sanitario preposto fanno tutto ciò che possono, con reale abnegazione, per curare i contagiati che hanno sviluppato la malattia, ma quella stessa comunità scientifica ritiene unanimemente che tutto ciò debba essere funzionale alla soluzione vera, che ripongono nel vaccino.
Diverso invece sarebbe - si fa per ridere un po’ in chiusura - una bella “iniezione di disinfettante con annessa esposizione ai raggi ultra violetti…” ma solo quelli d’oltre oceano, mi raccomando, dato che quelli mediterranei non è certo che funzionerebbero.
Democraticamente il pensiero è e deve essere libero, sempre! mentre diverso è secondo me il ritorno non utile alla collettività quando si lanciano messaggi non supportati dalla Scienza ufficiale, quella seria eh!
Il parallelo sta un po’ come il Genesi all’evoluzione darwiniana, o la terrapiatta a Galileo Galilei.
Perlomeno io la penso così
Aspetto con osservanza delle regole il mio turno per la vaccinazione
Nicola Gherarducci